Nella storia dell’umanità, i giovani rappresentano il futuro. Costituiscono lo sviluppo delle famiglie, il rinnovamento delle comunità, le speranze delle nazioni. E, da che mondo è mondo, sono in conflitto con la generazione che li ha generati: degli adulti che li hanno preceduti colgono prevalentemente le incompletezze e le inadeguatezze.
I giovani avvertono istintivamente che sono destinati a fare meglio di chi li ha messi al mondo. Anche se non sanno come. In genere, si aggrappano ad alcuni eventi o temi che sono stati ignorati o mal risolti dalla precedente o dalle precedenti generazioni (la tutela dell’ambiente è il tema emblematico) e pensano che sia sufficiente impegnarsi sul piano individuale per riuscire a fare meglio.
Purtroppo, come dimostreremo nel seguito, le cose sono molto più complesse.
I giovani d’oggi sono chiamati in tanti modi, più o meno suggestivi: millennial, ossia nati a cavallo del cambio di millennio, generazione Z, più giovane dei millennial, e in altri modi suggeriti dal sociologo di grido. Per le nostre considerazioni, sono tutt’al più distinti in adolescenti e giovani adulti. Questi ultimi sono dei maggiorenni, ossia hanno compiuto 18 anni e non sono ancora diventati degli adulti veri e propri. A questo proposito, mentre l’età statistica per essere un giovane adulto finisce a 34 anni, l’età reale è non raramente più avanzata.
I giovani dovrebbero entrare nel lavoro dopo gli studi, formarsi una famiglia di un qualche tipo e trovare posto nella società, producendo quanto basta per sé e per chi non può lavorare. Come hanno fatto storicamente coloro che li hanno preceduti. Mentre il solo percorso verso il lavoro è facilitato, tutto il resto è problematico. L’entrata nel lavoro è facilitata da uno sbilancio tra l’offerta di posti di lavoro e la disponibilità di manodopera sul mercato, con la prima che supera la seconda per circa 100mila unità l’anno. Non solo: lo sbilancio riguarda prevalentemente lo strato dei tecnici che costituisce la quota prevalente delle mancate disponibilità e che richiede una formazione secondaria o terziaria.
Per la precisione, si osserva un iniziale disallineamento tra il grado di istruzione di alcuni nuovi assunti e le mansioni per cui sono reclutati. Alcuni analisti scambiano questo divario per sotto-occupazione (overeducation, a significare che sono troppo istruiti per il posto ricoperto), ma altro non è se non l’inserimento lavorativo di giovani appena diplomati o laureati ma con percorsi formativi inadeguati rispetto alle più fini necessità del mondo della produzione. Comunque sia, da tempo non ci sono problemi di inserimento lavorativo in Italia.
Invece, i giovani hanno scarse prospettive sociali. Lasciamo sullo sfondo la disponibilità di abitazioni necessarie per vivere per proprio conto. Lasciamo ugualmente sullo sfondo la possibilità di accumulare fondi pensionistici. Tutto sommato, i loro genitori e i loro nonni hanno superato queste e ben altre difficoltà. Basti pensare che oggi l’80% degli italiani è proprietario o può usufruire a titolo gratuito della propria abitazione e che la stessa quota era del 75% nel 1991 e del 53% nel 1961.
I giovani adulti percepiscono il futuro in modo completamente diverso dagli altri adulti. I giovani lo percepiscono come particolarmente incerto e oscuro. Secondo alcuni studiosi (si può vedere a questo proposito il volume di dicembre 2024, n. 13, della rivista Atlantide), siamo tutti circondati dal buio e, a maggior ragione, il futuro è buio. Il buio è una parabola che rappresenta le negatività e l’incertezza derivanti dalla diffusa perdita di riferimenti morali della società civile, dall’incertezza dello scenario prossimo venturo e dalla crescente imprevedibilità dei comportamenti individuali. Il buio fa paura.
Secondo altri, i problemi psicologici sarebbero originati dalla paura di smettere di stare bene, perché lo stare bene scatena nelle persone desideri fantastici e idee astratte che non sanno come realizzare, mentre la paura di star male può rendere illusorio il benessere, rendendo le persone incapaci di sostenere il domani.
Ansie e paure affliggono, in modo particolare, i giovani. Secondo alcuni psicologi, è perché sono costantemente sotto pressione, con ansie da prestazione (scolastica, economico-lavorativa) aggravate da uno stile di vita sedentario, isolamento sociale, scarsa attività fisica e alimentazione inadeguata. Altri ipotizzano che sia la precarietà (lavorativa, abitativa, esistenziale) a creare disturbi nei giovani, poiché indebolisce le loro relazioni sociali e intacca la loro capacità di legare il presente al passato e al futuro.
Una delle radici profonde del disagio giovanile deriva dall’utilizzo massivo del digitale e dallo svolgere più attività contemporaneamente, come chattare, guardare video, ascoltare musica e aggiornarsi ansiosamente su ciò che accade nel mondo. Le informazioni-spazzatura che circolano sui dispositivi digitali, in mancanza di una adeguata maturità – che consentirebbe di filtrare le informazioni – potrebbero indurre nei giovani l’idea di un futuro distopico. D’altronde non parlano più con i genitori, con i nonni, con i vicini e, in gran parte, nemmeno fra di loro, e attingono a piene mani dai dispositivi digitali notizie negative che tendono ad avere un impatto maggiore rispetto a quelle positive.
Non v’è dubbio che l’eccesso di pressione, la precarietà, la carenza di socializzazione e di filtri alle informazioni negative generano insoddisfazione. Tuttavia, è verosimile che la depressione giovanile derivi da un inviluppo di cause che rende molto più complesso individuare quella o quelle che, eliminata, riconduce la vita dei giovani ad una approssimativa normalità.
Le nostre analisi del disagio giovanile ci indicano anzitutto che la depressione è sia causa che effetto della difficoltà dei giovani di comprendere il presente e immaginarsi in un futuro minato da gravi shock sociali. Ciò, verosimilmente, dipende dallo scoramento causato dagli shock sociali che hanno condizionato la vita nel mondo intero: le guerre e lo shock da virus, vaccini ed emergenza che hanno vissuto in diretta, ma anche altri shock che hanno interiorizzato. Infatti, in questo primo scorcio di secolo, abbiamo affrontato il terrorismo, che è stato sconfitto sul campo militare ma che rimane latente; inoltre, abbiamo patito una crisi economica di origine lontana e indecifrabile per i più, che ha messo in ginocchio per anni tutte le economie occidentali, nonché tensioni politiche internazionali, con guerre impensabili finché non sono scoppiate alle porte di casa, a cui si sono aggiunti disastri ambientali capitati ovunque e con sempre maggiore frequenza e crisi sanitarie, tra cui la pandemia.
L’altra variabile strategica è l’età, vale a dire l’esperienza di vita, che è inversamente correlata al rischio di depressione. Riprendiamo alcuni dati di una ricerca condotta in Italia e già pubblicata in questa sede appena dopo la pandemia: abbiamo trovato una larga proporzione (40%) di giovani adulti (età 18-34) affetti da depressione grave (misurata con il test di Beck utilizzato dagli psichiatri a fini diagnostici), mentre la quota di adulti in età 35-64 era del 19% e quella di ultra-65enni era del 13%. Addirittura, la quota di depressi è del 45% tra i 18-24enni e del 35% tra i 25-34enni. In sunto, molti giovani d’oggi – non solo in Italia – soffrono di attacchi di panico, ansie e depressioni patologiche, mentre solo quote residuali di adulti di mezza età e rari anziani soffrono la vita tanto da sviluppare patologie psichiche.
La depressione giovanile si accompagna all’affievolirsi dell’aspirazione a sostituire la generazionale dei genitori, o, per meglio dire, i giovani di oggi non sentono la biologica pulsione interiore a scommettere su un futuro nel quale sarebbero primi attori. Certamente, la situazione sociale è complessa, ma il progresso dell’umanità implica un colpo di reni della generazione che sta per entrare nelle funzioni da adulto. Per prendere le redini della società e condurla verso nuovi orizzonti, i giovani devono avere forza di volontà. Invece, i rischi di stravolgimenti e i dubbi sulla possibilità di incidere inibiscono, in modo particolare, i più giovani che, della vita, hanno una visione idealistica ma anche paciosa.
In Italia, i genitori, forse perché hanno goduto di decenni di progresso senza conflitti, tanto da considerare questa situazione come scontata, forse perché sono loro stessi intimiditi dai recenti shock sociali, forse perché hanno generato pochi figli, si tolgono il pane di bocca per timore di scontentarli e li trattengono in famiglia quanto più a lungo possibile. Con il risultato di impedire o ritardare la loro transizione verso l’età adulta. Per i giovani cresciuti nel limbo dell’abulia si sono sprecate i termini derisori: sono stati chiamati bamboccioni, mammoni, schizzinosi (choosy), e privatamente anche peggio, come se fossero solo loro all’origine del problema.
Su questa situazione si è innestato il problema dell’abuso di sostanze. L’assunzione di sostanze psicogene e alcool, da sempre, e non solo per i giovani, è un modo per evitare una realtà incombente, cercando nella sostanza la forza momentanea per affrontare la realtà. Le droghe leggere sono molto diffuse nel mondo occidentale, in modo particolare tra i giovani. Tuttavia, non raramente, quando se ne parla, si sente dire, anche da persone adulte, “ma insomma, cosa vuoi che sia una canna rispetto al casino che c’è in giro”. Già, in giro ce n’è ben altra di droga, pesante e persino letale. E, comunque sia, l’abuso di quella pesante è sempre stata preceduto da quella cosiddetta leggera.
Paura del futuro, fuga nella droga e isolamento sociale sono i problemi che inibiscono e addirittura deprimono tanti giovani. Purtroppo, nel contesto di un ambiguo consenso sociale. Non solo, ma se i problemi rimangono della stessa portata anche nei prossimi anni, l’attuale giovane generazione non sarà la sola a soffrirne.
La pandemia ha fatto emergere in ogni italiano, moltiplicandola, la paura dell’ignoto, dell’imprevisto che può paralizzare l’iniziativa, l’intrapresa, la propensione a generare. Infatti, durante e dopo il Covid, sono diminuite le relazioni stabili, le nuove nascite, l’avvio di nuove imprese e di attività autonome, e tutto ciò che è proiezione nel futuro. Le giovani generazioni sono state le vittime più facili della “pandemia della paura” che la pandemia da virus ha solo accelerato.
Come si può, pertanto, restituire la consapevolezza del futuro alle nuove generazioni? Anzitutto, i giovani vanno incoraggiati ad immaginare sé stessi nel futuro. Ciò non significa che il loro futuro sarà senza timori, anzi. L’importante è che imparino a farvi fronte. Siccome, per dirla con il Manzoni, “uno il coraggio non se lo può dare”, è necessario che i giovani imparino a circoscrivere la paura del futuro. Il futuro resta incerto, però si può provare ad immaginare il quadro entro cui si verificano certi eventi, in modo particolare se sono difficili da affrontare, e a trovarvi una sistemazione positiva.
Come dice l’adagio dantesco “saetta previsa vien più lenta”, e cioè, se ragioniamo e ri-ragioniamo su qualche fatalità negativa che può capitarci, riusciamo in qualche modo a circoscrivere i danni. All’incirca, è ciò che un gruppo di lavoro coordinato dal prof. Simone Di Zio dell’Università di Pescara deve aver pensato proponendo un gioco educativo proposto per “allenare ai futuri” (il titolo è “A say on futures”) sia studenti dai 16 anni in su, sia chiunque come gioco di società. Il gioco consiste nel far prelevare da un mazzo delle carte che rappresentano eventi – non solo ma frequentemente negativi – che possono accadere entro 5, 10 o 20 anni. Il compito dei giocatori è di figurarsi il contesto determinato dalle carte pescate e di immaginare che cosa farebbero per dare soluzione positiva alla situazione prefigurata. Abituandosi a pensare a futuri variamente configurati, chi gioca si abitua a risolvere situazioni e acquisisce così la consapevolezza che padroneggiare l’incertezza è possibile.
Il gioco è una delle possibili proposte per fare fronte al disagio giovanile. È verosimile che altre seguiranno quando la radice del disagio sarà più evidente agli studiosi consapevoli. Rimane comunque il problema di far uscire dal buio della depressione e della droga un numero spropositato di giovani d’oggi. Il problema è urgente, stante l’aumento impressionante del numero di suicidi, tentativi di suicidio e patologie psichiatriche tra i giovani. Senza dimenticare i “depressi silenti”, ossia coloro che sono sconosciuti al sistema sanitario ma sono in oggettive condizioni di difficoltà psichica, nonché l’area vasta dei giovani ripiegati su sé stessi che trascurano l’ideazione del proprio futuro.
Per quanto riguarda il rapporto tra terapie psichiatriche e salute mentale, vale quanto sopra affermato, ossia che la depressione è causata da – e quindi è un sintomo della – mancanza di futuro. Se uno ha una malattia allo stomaco e questo gli causa febbre, è un gesto di umanità dargli una pastiglia che gli abbassa la febbre, ma il problema allo stomaco va curato in modo appropriato. Quindi, le terapie psichiatriche sono importanti per alleviare la sofferenza di chi è depresso, ma non risolvono il problema alla radice, che ha natura sociale.
Per tutti i giovani, invece, è importante che siano resi consapevoli che le difficoltà (personali e di contesto) fanno parte della vita e che il coraggio uno lo deve gradualmente costruire, lavorando su sé stesso. Per questo sono importanti le discussioni di condivisione con i pari, l’apertura con gli insegnanti e altri adulti consapevoli, persino la consultazione di siti che aiutano a capire come va il mondo e facendo uno sforzo per trovare con pazienza il bandolo della propria matassa. E, possibilmente, ignorando i siti di sedicenti psicologi che fanno diagnosi a distanza di fenomeni così complessi e che richiedono, invece, tanta concentrazione per poter risalire alle vere radici dei malesseri giovanili.
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