Non è un momento facile per il nostro Paese. Non solo per quanto sta accadendo nel mondo politico, ma anche per la sua situazione economica, che di certo non può essere migliorata da un contesto internazionale dove è tornato lo spettro della recessione. Vien quindi da chiedersi: l’Italia ce la farà? “La risposta, attraverso i dati statistici, passa da due grandi partite in atto: quella economica e quella demografica”, ci dice Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, che proprio oggi al Meeting di Rimini prenderà parte a un incontro dal titolo “L’Italia ce la farà? Numeri alla prova”.
Cominciamo dalla partita economica. Cosa può dirci al riguardo?
La partita è in corso. Ci sono segnali che arrivano, per esempio, dalla produzione industriale, piuttosto che dal Pil, che vanno nella direzione di una stagnazione. Ce ne sono altri, legati per esempio all’export e ancor più all’occupazione, almeno in termini quantitativi, che seppur non esaltanti sono quanto meno positivi. In generale la partita economica è difficile, ma resta aperta.
Si parla appunto di stagnazione e crescita zero: sono meglio o peggio dei periodi che ci siamo lasciati alle spalle?
I confronti sono per certi versi discutibili, perché il contesto nel tempo cambia. Tutti siamo a conoscenza dei difficili rapporti tra Stati Uniti e Cina, dei timori di una guerra dei dazi, dei problemi che attraversano le grandi economie europee come la Germania: tutti fattori che inevitabilmente hanno conseguenze per un Paese come l’Italia che è aperto sul piano internazionale. Non credo sia metodologicamente corretto, né tutto sommato utile, fare grandi considerazioni a seguito di confronti. Meglio prendere atto di quel che accade e rimboccarsi le maniche per trovare il modo di migliorare la situazione.
Il Sud, come ci dice la Svimez, però arranca sempre più e il Nord, con la frenata tedesca, si è bloccato. Come facciamo a migliorare la situazione?
Non credo ci siano delle soluzioni miracolose, ma abbiamo visto che i punti deboli nel nostro settore produttivo, su cui si può cercare di intervenire, riguardano il fatto che qualche volta non si fa rete, non c’è sufficiente apertura all’innovazione o la dimensione aziendale è troppo piccola. Abbiamo poi alcuni ambiti produttivi in cui non siamo in grado di fare concorrenza a paesi nei quali il costo della manodopera è decisamente più basso. Però possiamo farcela laddove c’è bisogno di inventiva, di tecnologia, di capacità, anche di alto livello. Dobbiamo poi riuscire a valorizzare sempre di più le bellezze naturali e il patrimonio di cultura presenti in Italia, provando così a trovare risposte alla situazione problematica e critica che in qualche modo siamo costretti ad affrontare.
Dove le cose per l’Italia sembrano andare meglio è sul fronte dell’occupazione. Ma qual è la situazione reale dietro i dati che l’Istat comunica?
I dati che comunica l’Istat sono i dati della situazione reale. Si tratta di dati basati su campioni molto grandi, con una grossa robustezza e affidabilità e questo l’ha dimostrato anche l’esperienza nel tempo. L’aumento dell’occupazione e la diminuzione del tasso di disoccupazione sono quindi dati di fatto. C’è semmai da tener conto che oltre agli aspetti quantitativi contano quelli qualitativi: non basta l’aumento dell’occupazione, ma è importante che questa sia qualitativamente di buon livello. Quindi tutte le problematiche della precarietà, del part-time involontario o di sottoutilizzo di lavoratori con un’alta formazione sono ancora aperte e c’è da augurarsi che si possa ottenere qualche miglioramento. Ci sono però degli aspetti positivi da non trascurare.
Quali?
Nel 2018 siamo tornati al livello di occupati pre-crisi, cioè del 2008. All’interno di questo recupero, un ruolo particolarmente importante è stato quello dell’occupazione altamente qualificata nei settori dell’informazione e comunicazione, dei servizi alle imprese e dell’industria. Questo è un risultato confortante. Dobbiamo muoverci probabilmente in questa direzione e cercare sempre più di valorizzare la quantità anche attraverso la qualità.
Passiamo alla partita demografica…
È certamente più problematica, nel senso che abbiamo visto dal 2015 che la popolazione diminuisce numericamente, sono sei anni che abbiamo il record di natalità più bassa di sempre nella storia d’Italia e il saldo naturale è negativo per quasi 200mila unità. È evidente che le modifiche della popolazione in quantità e in struttura determinano dei cambiamenti su tutti i fronti, compreso quello economico. Da questo punto di vista la partita per certi versi è ancora aperta, però è più faticosa: siamo pressati da un andamento demografico certamente non favorevole.
Quanto questa situazione demografica può accentuare i problemi dell’economia?
Non credo si sia in grado di misurare con precisione l’effetto, l’incidenza. Credo sia comunque ragionevole ipotizzare che ci sia una connessione. Per esempio, se le famiglie cambiano in termini numerici, ma soprattutto dimensionali, è evidente che ciò incide sui consumi. Sta crescendo la popolazione straniera, sempre più assimilata e integrata, ma probabilmente per motivi di minor reddito ha livelli di consumi mediamente più bassi rispetto alla popolazione autoctona. Dobbiamo in sostanza mettere in conto che la trasformazione della popolazione avrà sicuramente un impatto importante sulle variabili, come quella dei consumi, che poi incidono sul quadro generale economico.
Come ci dovremmo muovere per migliorare la situazione demografica?
È necessario che le famiglie, le coppie, siano messe in condizione di poter fare quei figli che oggi non fanno. C’è una minor fecondità, un rinvio, che molto spesso diventa rinuncia, nell’avere il secondo o il terzo figlio, anche per motivi di natura economica, legati alla struttura del mercato del lavoro, alla difficile conciliazione tra maternità e lavoro. C’è anche un contesto culturale che non sembra gratificare chi eroicamente decide magari di fare più figli. Tutte queste cause interagiscono e si sommano, producendo il risultato finale che poi osserviamo attraverso i dati statistici.
Per chiudere, è in arrivo una revisione “non ordinaria” dei conti nazionali da parte dell’Istat: cosa potrà cambiare?
È una cosa dovuta semplicemente agli accordi in essere con Eurostat. È un’operazione periodica di revisione della contabilità a cadenza quinquennale, un aggiornamento tecnico, niente di più. Non credo ci saranno grandi cambiamenti, vedremo.
(Lorenzo Torrisi)