Nonostante i dubbi instillati dall’esempio del pollo di Trilussa, le statistiche sono importanti per interpretare la realtà, inclusi i trend dell’economia, dell’occupazione e della disoccupazione, soprattutto dopo una fase come quella attraversata durante i 100 giorni della “spinta propulsiva” del Covid-19, quando non solo diversi settori produttivi sono stati chiusi per legge, ma è stato persino difficile, per l’Istat, svolgere le consuete procedure per raccogliere i dati, a causa della dottrina del distanziamento sociale e della quarantena.



L’Istituto di statistica (insieme ad altri enti) è stato convocato in audizione dalla commissione Lavoro della Camera; in quell’occasione ha depositato un documento che fotografa la situazione, fino all’aprile scorso; ed è su questi dati che sorgono degli interrogativi, perché è difficile sottrarsi all’impressione che la tirannia delle definizioni confonda la realtà. Se si incrociano, infatti, le quote percentuali dell’occupazione e della disoccupazione, ci si imbatte in un Paese che ha dei tassi in forte calo per ambedue le fattispecie. Infatti, rispetto al mese di marzo 2020, ad aprile si registra una marcata diminuzione dell’occupazione, si rafforza il calo delle persone non occupate in cerca di lavoro già registrato a marzo, con un’ulteriore forte crescita dell’inattività. La diminuzione dell’occupazione (-1,2% pari a -274mila unità) è generalizzata: coinvolge donne (-1,5%, pari a -143mila), uomini (-1,0%, pari a -131mila), dipendenti (-1,1% pari a -205mila), indipendenti (-1,3% pari a -69mila) e tutte le classi d’età, portando il tasso di occupazione al 57,9% (-0,7 punti percentuali).



Le persone in cerca di lavoro (-23,9% pari a -484mila unità) diminuiscono maggiormente tra le donne (-30,6%, pari a -305mila unità) rispetto agli uomini (-17,4%, pari a -179mila), con un calo in tutte le classi di età. Il tasso di disoccupazione scende al 6,3% (-1,7 punti) e, tra i giovani, al 20,3% (-6,2 punti). La spiegazione sta nella forte crescita dell’inattività denunciata dall’Istat (+5,4%, pari a +746mila unità): +5% tra le donne (pari a +438mila unità) e +6% tra gli uomini (pari a +307mila). Il tasso di inattività si attesta al 38,1% (+2,0 punti). In sostanza – scrive Francesco Seghezzi nei consueti “10 tweet” di commento su Adapt – “il tasso di occupazione scende al 57,9% (penultimo posto in Europa), quello di disoccupazione scende al 6,3% (tra i più bassi degli ultimi decenni), ma è una illusione ottica perché quello di inattività sale al 38,1%, ai livelli del 2011″.



Non restiamo, pertanto, prigionieri delle definizioni tenendo conto, in astratto, dei contenuti che distinguono, nelle classificazioni, i disoccupati dagli inattivi. E andiamo al sodo: chi è inattivo non lavora. Ed è un problema, perché non si impegna neppure a cercare un impiego. I disoccupati sono invece coloro che, nel periodo di riferimento, hanno dichiarato di aver cercato attivamente un lavoro, affermando al contempo di essere disponibili a iniziare un’attività lavorativa entro due settimane, condizioni difficilmente compatibili con una fase di lockdown. La situazione pertanto è molto seria, ma è prematuro fare previsioni catastrofiche prima di valutare l’intensità della ripartenza.

Con riferimento al 2019, gli occupati sono stati classificati in due categorie: a) occupati in settori di attività ancora attivi; b) occupati in settori di attività sospesi. Tale classificazione non distingue tra quanti possono lavorare a distanza (si pensi ad esempio al settore dell’istruzione o più in generale agli impiegati amministrativi) e quanti devono invece obbligatoriamente recarsi sul luogo di lavoro (ad esempio i dipendenti di supermercati o delle farmacie e gli operai). Nella media del 2019, l’occupazione totale in Italia è stata pari a 23 milioni 360 mila persone; di queste, il 68,6% risultava lavorare in uno dei settori di attività economica rimasti attivi, per un totale di 16 milioni 280 mila occupati, mentre il restante terzo (7 milioni 332 mila occupati) risultava operante in uno dei settori dichiarati sospesi dal decreto. La scelta operata dai diversi provvedimenti normativi – segnala l’Istat – ha fatto sì che tutti gli occupati dei settori Agricoltura (909 mila), Trasporti e magazzinaggio (1 milione 143 mila), Informazione e comunicazione (618 mila), Attività finanziarie e assicurative (636 mila), Pubblica amministrazione (1 milione 243 mila), Istruzione (1 milione 589 mila), Sanità (1 milione 922 mila) e Servizi famiglie (733 mila) siano rimasti attivi, sebbene alcuni di essi abbiano proseguito prevalentemente o quasi esclusivamente attraverso il lavoro a distanza.

C’è comunque da tenere conto anche della Cig (il cui utilizzo non interrompe il rapporto di lavoro). Ormai ci si sta avvicinando a un miliardo di ore autorizzate, ma è presto per fare previsioni sull’effettivo tiraggio (che a gennaio – sia pure in una situazione non ancora emergenziale – è stato molto basso). Più articolato appare invece il contesto degli altri settori. Se la quota di persone occupate nei settori sospesi non supera il 20% nelle attività immobiliari, professionali, scientifiche e tecniche, noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (circa 536 mila occupati), nel commercio la quota sale al 43% (oltre 1,4 milioni), mentre nell’industria in senso stretto e nelle costruzioni risultano lavorare in settori sospesi più della metà degli occupati (rispettivamente 56,4 e 60,7%; in totale poco meno di 3,5 milioni di lavoratori). Decisamente più elevata appare la quota di lavoratori nei comparti sospesi del settore alberghi e ristorazione (78,5%, poco sotto gli 1,2 milioni) e delle altre attività di servizi collettivi e personali (71,9%, 755 mila).

In questi due settori è più alta anche l’incidenza, tra i lavoratori delle imprese coinvolte dalla sospensione dell’attività, degli occupati a tempo determinato (rispettivamente il 26% e il 16%, contro un 11% rilevato sia nell’industria che nel commercio).

Quanto alle ore lavorate, la diminuzione ha coinvolto sia i dipendenti che gli indipendenti, sebbene sia più diffuso tra questi ultimi: se fino a febbraio 2020 il numero di ore lavorate da tutti gli occupati era sempre superiore (di almeno 1,5 ore) a quello delle ore lavorate dai soli dipendenti – per effetto di orari più prolungati tra gli autonomi – nei mesi di marzo e aprile il numero di ore pro-capite lavorate da tutti gli occupati è invece inferiore a quello relativo ai soli dipendenti, a seguito della maggiore diffusione dell’assenza dal lavoro tra gli indipendenti. Per i dipendenti, le ore lavorate settimanali sono passate da 34,4 di marzo 2019 a 25,7 di marzo 2020, con un calo del 25,3%; ad aprile 2020 le ore lavorate mediamente in una settimana sono state pari a 22,9, in calo del 28,4% rispetto alle 32 ore mediamente lavorate ad aprile 2019.

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