Un settore che, da solo, alimenta il 13% del Pil, qualcosa come più di 223 miliardi di euro, e dà lavoro al 14,7% degli occupati totali, con un tasso di crescita del 3,2%, mentre quello italiano arranca, se va bene, allo 0 virgola. È il comparto viaggi-turismo, precisamente quello leisure, ossia di piacere, ben distinto dal turismo business, d’affari, dove la mèta non è mai scelta, ma imposta dai motivi di lavoro, e quindi non variabile. In pochi numeri è riassunto il peso di un settore, il settore fondamentale nel Paese che possiede il patrimonio artistico, culturale e naturale più vasto ed importante al mondo, e di cui ovviamente chiunque vorrebbe gioire almeno una volta nella vita. Eppure anche in questo fondamentale motore, qualcosa non funziona a dovere, vittima di scarse manutenzioni e vecchie incrostazioni.



A chiarire i dettagli economici e sociali del fenomeno, per comprendere a fondo lo status quo, le potenzialità, le carenze, i possibili correttivi e gli obiettivi per i prossimi anni, arriva l’ultimo report curato dal CRISP, il centro di ricerca interuniversitario per i servizi di pubblica utilità, un network accademico che ha base all’Università di Milano Bicocca e dalla Fondazione per la Sussidiarietà. La ricerca – voluta da TH Resorts, uno dei principali player a livello nazionale attivo nella gestione di 31 strutture alberghiere in Italia – è stata presentata il 12 dicembre, nella sede romana della Cassa depositi e prestiti (partner in TH).



Al primo punto l’esame dei dati, a partire dall’incremento dei turisti (italiani e stranieri) ospitati negli esercizi ricettivi in sei anni: da 104 a 123 milioni nel 2017, con un forte incremento negli arrivi dei turisti stranieri. Un aumento che però deve fare i conti con la riduzione del numero medio delle notti per cliente (dalle 3,67 del 2012 alle 3,41 nel 2017), indice di più limitate disponibilità economiche, di abitudini più onnivore o superficiali (si vuole vedere e visitare nello stesso tempo più mète possibili), della consuetudine alla fretta del mordi&fuggi. Non ci si può esimere, poi, dal confronto con gli altri Paesi-calamita. Se in Italia la crescita di presenze è del 3,5% all’anno (però molto stagionali, marine al 40,9% e montane al 51,9%), la Spagna registra il +4,9, la Grecia il +5,4. Non si tratta solo di scelte casuali, spesso la responsabilità di quelle scelte è la carenza delle offerte.



Negli ultimi cinque anni gli esercizi alberghieri hanno perso 394 unità, mentre sono esplosi quelli extra alberghieri (ad esempio ostelli, case per ferie ecc), +57.975, e quelli gestiti imprenditorialmente (camere o case in affitto ecc.), +38.836. Da questo divario deriva che dei 286.667 occupati di settore nel 2017, il 57% ha un contratto a tempo determinato, o part-time o con voucher, e il 7,6% ha un rapporto di lavoro familiare.

Tutto questo comporta una sostanzialmente scarsa attenzione e un conseguente basso livello del “capitale umano”, con 96 lavoratori per ogni dirigente (22 occupati/dirigente nel complessivo mercato del lavoro), con il 4% degli addetti senza alcun titolo di studio e il 30% un diploma di primo grado. Risulta anche che se un dipendente senza alcun titolo di studio percepisce uno stipendio di poco inferiore alla media nazionale (-0,7%), i lavoratori con una laurea guadagnano il 20% in meno rispetto alla media italiana.

“Perché il mercato possa crescere secondo le enormi potenzialità del Paese – sostiene Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà – è necessario che l’offerta sia più qualificata, più adeguata alle esigenze del turismo straniero di qualità e superi il suo carattere di stagionalità. A questo conseguirebbe anche un maggior livello di occupati, una migliore formazione, con contratti più stabili. La ricerca si focalizza sulla necessità di formare capitale umano più qualificato. Certo, ci sono molti altri strumenti, come investire in infrastrutture e in pubblicità su mercati importanti. Tuttavia, in prospettiva, la strada maestra resta quella di puntare sulle persone”.

La marcata stagionalità – sostengono i ricercatori del CRISP – e la presenza di medio-piccole imprese alberghiere (con una media di 24 posti letto a struttura) di certo non contribuiscono alla stabilizzazione degli addetti e alla loro crescita professionale. Se si aggiunge a tutto ciò l’eccezionale costo del lavoro (il 72% in più rispetto alla Grecia, il 20% in più rispetto alla Spagna), con un cuneo fiscale al 42%, si comprendono i limiti entro cui il turismo in Italia oggi si trova a sgomitare. Limiti che si potrebbe tentare di allontanare – si conclude nel report – anche con l’adozione dell’apprendistato di alta formazione e ricerca, quello “di terzo livello”, con vantaggi formativi per i giovani, che potrebbero finalmente sviluppare competenze specifiche in linea con il proprio percorso di studi; vantaggi fiscali per il datore di lavoro, con conseguente riduzione del cuneo; e vantaggi per l’ente formativo convenzionato. Di pari passo, si dovrebbe procedere con nuove politiche turistiche, che favoriscano questa crescita del personale, una maggiore flessibilità per un settore così stagionale, l’accorpamento e lo sviluppo di un tessuto imprenditoriale ricettivo medio-grande, per arrivare ad un comparto complessivamente competitivo, con personale qualificato, manager capaci, strutture solide e pronte ad affrontare le sfide del turismo moderno.