Toc, toc: disturbo? Mi scuso se busso prudentemente alla porta e pongo una domanda, perché vorrei parlare ancora di Covid-19 ed ho l’impressione di poter suscitare, al minimo, fastidio se non addirittura una cacciata in malo modo. Sì, perché mi sembra di capire che l’argomento non interessi più nessuno e che la sua evocazione possa solo indurre a non nominabili gesti scaramantici nonché alla emissione di un profluvio di termini anch’essi non nominabili.
Eppure, dovrebbe interessare, penso io, avere contezza di cosa ha voluto dire in termini sanitari gravi (mortalità, tanto per intenderci) il fenomeno che è apparso agli inizi del 2020 e che ancora ci accompagna col suo carico di sofferenze, anche se probabilmente per chi si occupa di informazione non merita più di essere nemmeno notiziato. Bruciare la notizia, dimenticare e passare oltre, è una delle cifre caratteristiche del tempo che stiamo vivendo, ma è una cifra che non posso accettare, non perché sono appena passati il Giorno della Memoria e quello del Ricordo, che per definizione invitano a ricordare, ma perché ne va della mia e della nostra umanità.
L’occasione è data dalla audizione dell’ISTAT (rappresentata da Cristina Freguja, direttrice del Dipartimento per le statistiche sociali e demografiche dell’Istituto Nazionale di Statistica) alla commissione parlamentare di inchiesta sul Covid, dove l’Istituto ha fornito un quadro delle principali statistiche di mortalità (e non solo) relative al periodo 2020-2023, utili a valutare l’impatto demografico e sanitario della pandemia da virus SARS-CoV-2.
Come noto, la diffusione epidemica ha avuto tre fasi principali: da marzo a maggio 2020 (prima ondata: rapidissima diffusione dei casi di contagio e dei decessi, concentrazione prevalentemente nel Nord Italia); da giugno a settembre 2020 (fase di transizione: diffusione contenuta del contagio); da ottobre a dicembre 2020 (seconda ondata: i casi di nuovo sono aumentati rapidamente almeno fino alla prima metà di novembre, per poi diminuire; diffusione del contagio in tutto il Paese), ma è proseguita nel 2021 (e forse anche oltre).
Nella prima ondata sono stati contati 51mila decessi in più rispetto allo stesso periodo della media 2015-2019 (+31,7%); nella fase di transizione l’eccesso di mortalità è stato del +2,6%; nella seconda ondata l’eccesso è stato di 52mila decessi (sempre rispetto alla media 2015-2019: +32,3%).
Nel 2021 i decessi sono risultati 37mila in meno rispetto al 2020 (-5,0%), ma 63mila in più rispetto alla media 2015-2019 (+9,8%). A partire dalla 20esima settimana del 2021, con il progredire della campagna di vaccinazione, la mortalità ha iniziato a diminuire in modo consistente.
Nel 2022 ci sono stati 715mila decessi in totale: 4mila unità in più del 2021 ma 33mila in meno rispetto al 2020. Nel 2023 i decessi sono 670mila e si ha quindi un ritorno ai livelli di mortalità di epoca pre-pandemica.
L’eccesso di mortalità ha avuto effetti anche sulla speranza di vita alla nascita: nel 2020, considerando uomini e donne insieme, è scesa a 82,1 anni (-1,1 anni rispetto al 2019), valore già osservato nel 2012, cioè un passo indietro di quasi 10 anni. La penalizzazione è stata più forte tra gli uomini (79,8: 1,3 anni in meno rispetto al 2019) che tra le donne (84,5: un anno in meno sul 2019).
Nel 2021 c’è un recupero (80,3 anni per gli uomini, 84,8 per le donne) che prosegue nel 2022 per i soli uomini (80,6) e si accentua nel 2023 in entrambi i sessi (uomini 81, donne 85,1) tornando quasi ai valori pre-pandemici (uomini 81,1; donne 85,4).
Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige e Toscana si trovano nel 2023 su valori superiori a quelli del 2019; Veneto, Liguria, Emilia-Romagna e Basilicata sono tornati ai valori 2019; le altre regioni restano ancora su un livello inferiore.
L’incremento complessivo dei decessi nel 2020 è dovuto, oltre che ai decessi per Covid-19, anche all’aumento dei decessi per altre cause di morte: diabete (+19,3%), malattie respiratorie (+8,4%), malattia di Alzheimer e altre demenze (+7,3%).
Inoltre, per il diabete e le cardiopatie ipertensive si assiste a una brusca interruzione del trend di riduzione della mortalità osservato negli anni che precedono la pandemia. I morti per Covid-19 sono risultati 78.673 nel 2020, 63.915 nel 2021 e 51.630 nel 2022.
La pandemia ha messo in evidenza e acuito le disuguaglianze nella mortalità: nel 2019, chi aveva al massimo un titolo di studio elementare ha avuto una mortalità del 29% più alta rispetto a un laureato; nel 2020 e 2021 la percentuale è salita rispettivamente a 35% e 37%.
La mortalità per Covid-19 è stata più elevata nelle persone con un livello di istruzione più basso: il tasso di mortalità standardizzato per chi possiede al massimo la licenza elementare è stato pari a 23,6 per 10mila negli uomini e 11,5 per 10mila nelle donne, mentre per i laureati il tasso è stato rispettivamente di 16,6 e 6,9 per 10mila.
Anche per la maggior parte delle altre cause di morte emerge un gradiente a svantaggio dei meno istruiti, con particolare rilevanza per alcune condizioni morbose associate allo stile di vita (alimentazione, abuso di alcol), alle condizioni di vita e di lavoro e ai comportamenti individuali (propensione alla cura, prevenzione, diagnosi precoce).
Tra il 2019 e il 2023 risultano in aumento i cittadini che hanno rinunciato a prestazioni sanitarie necessarie (visite mediche, accertamenti diagnostici, …): circa 4,5 milioni nel 2023 (7,6% sull’intera popolazione), livello superiore a quello del 2019 (6,3%). Gli effetti della pandemia sono stati ingenti nel 2020 e 2021 quando la quota di persone che avevano dovuto rinunciare a visite e accertamenti necessari era salita rispettivamente al 9,6% e all’11,0%.
Nel complesso, il 4,5% della popolazione nel 2023 ha dichiarato di rinunciare a causa delle lunghe liste di attesa (era 2,8% nel 2019) e il 4,2% lo ha fatto per motivi economici (era 4,3% nel 2019). La quota di chi ha rinunciato per problemi direttamente legati al Covid, quali le restrizioni imposte per contenere i contagi, il sovraccarico delle strutture e il timore di contrarre infezioni, che aveva raggiunto il 5,9% nel 2021, è risultata residuale nel 2023 (0,1%).
La percentuale di quanti hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie cresce all’aumentare dell’età: nel 2023, partendo dall’1,3% rilevato tra i bambini fino ai 13 anni, la quota mostra un picco nell’età adulta tra i 55-59enni (11,1%), per restare elevata anche tra gli anziani di 75 anni e più (9,8%).
Dato questo contesto generale, ISTAT ha messo un particolare accento anche sulle fragilità dei giovani e ha segnalato che il recupero in termini di benessere rispetto alla situazione precedente l’emergenza sanitaria, osservato a livello medio di popolazione, non sempre si registra per i più giovani.
È il caso ad esempio dell’indice di salute mentale, in particolare per le ragazze. Nel 2021 l’indice era calato decisamente tra le persone di 14-19 anni (-4,6 punti tra le ragazze, -2,4 punti tra i ragazzi, rispetto al 2020). Anche nel 2023 le ragazze 14-19enni sono il gruppo in cui si riscontra la maggiore distanza rispetto al 2019.
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