Il 7 aprile l’Istat ha presentato il “Rapporto sulla competitività dei settori produttivi – edizione 2022”. Il volume raccoglie informazioni e molti dati sulle performance dei settori in Italia fino al 2021 e costituisce una fotografia della situazione prima dell’inizio della guerra in Ucraina.



Il 2021 ha visto la ripresa dell’occupazione con un recupero solo parziale rispetto al 2020. La ripresa del lavoro è avvenuta soprattutto attraverso l’aumento delle ore lavorate. Anche se l’incremento è stato dell’8% nel 2021, il monte ore complessivo è ancora più basso del 4,1% rispetto al 2019 e del 9,1% rispetto al 2007, l’anno di massimo assorbimento di lavoro da parte dell’economia italiana. 



Si sono registrate sensibili differenze fra settori. Nell’industria il recupero produttivo è stato ottenuto facendo aumentare le ore lavorate pro capite. Le cose sono andate diversamente nel settore delle costruzioni, dove alla crescita delle ore pro capite è seguito fin dall’inizio dell’anno un aumento delle posizioni lavorative (i contratti). Nel settore dei servizi l’orario pro capite è cresciuto e cresce lentamente, mentre le posizioni lavorative sono aumentate del 5,4% a fine anno, grazie anche ai contratti part-time. 

Gran parte del recupero occupazionale riguarda i lavoratori alle dipendenze, mentre gli indipendenti, che sono 5,7 milioni, continuano a calare dal 2008, quando erano 6,6 milioni.



Con la crescita dell’occupazione e delle ore lavorate torna a crescere anche il numero di posti vacanti che le imprese non riescono a coprire. La quota delle imprese che segnalano difficoltà nel reperire la manodopera necessaria a svolgere le proprie attività (un indice di particolare gravità della situazione) è salita al 6,1% nell’industria e al 12,8% nei servizi. 

Con il tasso di disoccupazione del 2021 sopra al 9% si fa fatica a capire come un recupero nemmeno così vigoroso possa generare un’immediata mancanza di persone.

Istat segnala inoltre che nei primi 9 mesi del 2021 le dimissioni dal tempo indeterminato (o altri contratti permanenti) sono salite dell’8,1% rispetto allo stesso periodo del 2019. Al di là dei numeri relativi non si tratta di un fenomeno comparabile con quello che accade in altri mercati del lavoro, dove i lavori a termine coprono una quota maggioritaria dello stock, ma comunque è un segnale di cambiamento che pone delle domande: forse il lavoro non interessa più, non ha più senso?

Più avanti nel report Istat presenta un’analisi, molto tecnica, che contiene, o almeno suggerisce, una parte della risposta.

Collegando i dati sull’istruzione dei lavoratori a quelli dei livelli di istruzione effettivamente richiesti e impiegati dalle singole imprese, Istat arriva a stimare il grado di sovraistruzione o di sottoistruzione nel sistema delle imprese italiane e la sua evoluzione fra il 2014 e il 2019.

Usando come indicatore il numero di anni medi di istruzione formale richiesti dalle imprese, si nota un aumento lento ma costante (da 10,7 a 11,1 anni) della domanda di competenze con un’accelerazione negli ultimi due anni. 

La sovraistruzione ha un peso maggiore rispetto alla sotto istruzione. Gli anni medi di sovraistruzione sono costanti e pari a 1,2, mentre la sottoistruzione media passa da 0,7 anni a 0,8; questo aumento relativo della sottoistruzione misura la difficoltà a coprire le posizioni lavorative disponibili con personale adeguato, soprattutto nel settore dei servizi, dove il livello di sottoistruzione risulta più elevato rispetto all’industria.

I dati di performance delle imprese mostrano, come ci si poteva aspettare, che i lavoratori sovraistruiti hanno un impatto positivo sulla produttività soprattutto nella manifatturiera ad alto impiego di tecnologie e nei servizi ad alto contenuto di conoscenza. D’altra parte l’impatto della sottoistruzione è naturalmente negativo.

Ci sono due considerazioni importanti di cui tenere conto: la media rilevata di anni di formazione formale effettivamente impiegati è spinta verso il basso dalla presenta di sottoistruzione; l’esperienza lavorativa può colmare i divari rilevati rispetto alla richiesta di formazione formale, mitigando l’impatto negativo della sottoistruzione.

Resta il fatto che i sovraistruiti sono i primi candidati a cercare un lavoro migliore e più significativo e questo in periodi di ripresa spiega l’esodo dai contratti a tempo indeterminato. A tutte queste considerazioni manca poi la variabile salariale: in tempi di inflazione crescente molti possono essere spinti a lasciare il posto di lavoro sicuro ma poco pagato per uno più promettente e che riservi non solo maggiori soddisfazioni economiche, ma anche un maggiore interesse professionale. 

La difficoltà crescente a coprire posti nella Pubblica amministrazione, che pure offre posti sicuri, probabilmente risiede nello scarso fascino delle sue proposte professionali e retributive. D’altra parte non si può urlare per anni contro la presunta mancanza di professionalità del dipendente pubblico e la burocrazia dello Stato e poi sperare che un giovane ci voglia lavorare per quattro soldi.

Se i sovraistruiti si muovono verso posizioni migliori non c’è da gridare allo scandalo, possono solo migliorare la produttività complessiva del sistema. Piuttosto i datori di lavoro che restano con lavoratori sottoistruiti si chiedano se possono fare qualcosa di diverso dal lamentarsi (sul giornale o al bar). 

Cosa? Due o tre idee copiate dalle imprese concorrenti: accordarsi con i centri di formazione per costruire insieme percorsi adeguati d assumere giovani, chiamare un operatore pubblico o privato e usare le politiche attive del lavoro per fare formazione e attrarre nuovi talenti, pagare adeguatamente i nuovi assunti. 

Tutto compreso costa meno della fuga dei lavoratori migliori.

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