Un recente studio di Mediobanca ci offre una lettura interessante dell’economia italiana e della sua dinamica salariale. Si tratta dell’indagine annuale sulle società industriali e terziarie di grande e media dimensione, analisi che prende in considerazione 2.150 aziende che valgono quasi la metà del fatturato industriale.



Il rapporto ci dice che “le società industriali e terziarie italiane hanno segnato performance decisamente positive” sul fronte della marginalità e della redditività, con utili cresciuti del 26,2%, un valore aggiunto salito del 7,7%, un margine operativo netto aumentato del 21,9% mentre l’utile lordo prima delle componenti straordinarie ha registrato un +9,6%. Nel 2022, ne conclude il rapporto, l’industria italiana è riuscita a resistere alle intemperie dell‘inflazione, con una crescita del fatturato nominale del 30,9% e dello 0,6% in termini reali.



Sul versante lavoro scopriamo che il costo medio unitario del personale è cresciuto solo del 2%. In termini di potere d’acquisto – tenendo sempre conto della spirale inflattiva – ciò significa un calo del 22%.

Inoltre, negli ultimi 40 anni, l’incidenza del costo del lavoro si è più che dimezzata: nel 1980 questo pesava il 18,2% sul fatturato mentre oggi si ferma all’8,4%. Secondo Mediobanca, questo si deve ad alcuni fenomeni che hanno interessato l’industria tra i quali progresso tecnologico, automazione, ricomposizione settoriale e “servitizzazione” (la trasformazione della manifattura in servizio).



Non è solo questo, vi è molto altro. Può essere a questo punto utile ricordare due cose:

1) Negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse in cui i salari annuali medi hanno avuto un andamento negativo: sono infatti diminuiti del 2,9% (salari espressi a parità di potere d’acquisto).

2) Il rapporto annuale 2022 del The European House Ambrosetti (si tratta del Global Attractiveness Index. Il termometro dell’attrattività di un paese) già rilevava che la quota parte dei costi di produzione delle imprese italiane destinata ai salari e al lavoro dipendente è attualmente del 18,6%, valore inferiore del 6,3% rispetto alle imprese spagnole, del 7,1% alle imprese tedesche e del 8,2% rispetto a quelle francesi. Tutto questo, in una situazione di profitti in crescita: in Italia superiori dello 0,5% alla media europea, del 1,1% rispetto alla Spagna, del 3,2% rispetto alla Germania e del 7,8% rispetto alla Francia.

Dentro quella che qualcuno ha definito “la guerra dei numeri” – che riguarda favorevoli e contrari al salario minimo – restano sempre fuori due questioni importanti: anzitutto, il problema in Italia sono i salari bassi e non solo i livelli minimi; in secondo luogo, esiste un serio problema di distribuzione della ricchezza prodotta.

Rispetto al primo punto, abbiamo più volte visto quanto pesi la debolezza dei salari intermedi e dei percorsi di carriera. Venendo al secondo aspetto, sarebbe oggi molto importante aprire una seria riflessione sul modello contrattuale, sostanzialmente fermo al protocollo del ’93. La contrattazione di secondo livello, alla quale spetterebbe il compito di regolare la distribuzione della ricchezza prodotta, è troppo poco sviluppata. E nonostante molti tentativi per farla crescere, oggi possiamo dire che molto difficilmente uscirà dal perimetro delle imprese medio-grandi. Stiamo parlando del 5% del nostro sistema produttivo; il 95% delle nostre imprese, infatti, ha meno di 10 addetti (Istat): la micro-impresa, prevalentemente condotta secondo tradizioni familiari, è culturalmente lontana dalle logiche sindacali.

Uno sviluppo territoriale della contrattazione non solo definirebbe meccanismi di distribuzione della ricchezza anche per le piccole e micro-imprese, ma genererebbe anche criteri di differenziazione tra le aree produttive del Paese, principio caro ai Padri della legislazione salariale (Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore) rimosso con l’abolizione delle “gabbie salariali” (1969-1972).

Concretamente, come dare risposta al problema delle basse retribuzioni?

Oggi ci vorrebbe un nuovo accordo interconfederale. In questo senso, le ultime grandi intese sono quelle del 2009 e 2011. Non è seguito più nulla di rilevante un po’ per lo tsunami del caso Fiat, un po’ perché nel 2015 la deflazione rese impossibile fare accordi che governassero i salari validi per tutti. Ricordo una battuta di Carmelo Barbagallo (allora Segretario generale Uil) che disse a Giorgio Squinzi (allora Presidente di Confindustria): “non vogliamo il contratto ma i contratti”. E così fu: il problema della deflazione – per cui paradossalmente i lavoratori dovevano restituire denaro agli imprenditori – trovò soluzione nel perimetro dei settori merceologici e delle federazioni di categoria. In particolare, i chimici costruirono un modello che pagava ex ante l’inflazione prevista e andava poi a verificarla; i metalmeccanici, scelsero invece di pagarla ex post, una volta nota. Questi furono i due modelli e ogni settore scelse di adottare quello più congeniale alle proprie abitudini.

Oggi però le grandi confederazioni potrebbero riprendere in mano il discorso. Troverebbe soluzione anche il salario minimo. Il compianto Carlo dell’Aringa, già nel 2008, sosteneva che proprio a livello confederale andavano definiti i livelli minimi sotto i quali non si può andare. Questa è la strada maestra per un Paese come l’Italia.

Twitter: @sabella_oikos

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