In un mondo che si limita alle percezioni, quando un sindacalista ha un vicino di casa il cui figlio – laureato – non ha ancora trovato lavoro (ovviamente quello a cui aspira) nel prossimo comizio dirà che in Italia i laureati sono disoccupati, a meno che non si accontentino di fare i camerieri (come spesso fanno, in un primo tempo, molti di quei giovani che vanno a lavorare all’estero). Gli economisti di sinistra, più raffinati, scrivono invece che il sistema imprenditoriale ha trovato più comodo puntare sulla via bassa dello sviluppo, quella del risparmio sul costo del lavoro, piuttosto che sulla via alta, quella della competitività di processo e di prodotto, individuale e di sistema. Pertanto vi è un’offerta più qualificata della domanda. Il che è smentito dalle indagini che riguardano le politiche di assunzione delle imprese (si vedano i rapporti periodici Excelsior) che lamentano una crescente difficoltà a reperire manodopera adeguata alle loro esigenze, con tanto di indicazione delle professionalità che sarebbero necessarie. 



Non sempre le statistiche aiutano a risolvere il dilemma perché alla fine dei conti si limitano a fotografare la realtà esistente nel periodo considerato, mettendo in fila numeri (quanti laureati, quanti diplomati sono occupati, ecc.) non persone. La Banca dati di AlmaLaurea, il centro fondato dal compianto Andrea Cammelli presso l’Ateneo bolognese, usa un criterio diverso: il suo è un censimento dei laureati in quanto persone, il cui itinerario professionale viene seguito per anni. In questo modo si ottiene un dato più credibile ed effettivo del rapporto dei laureati con il mercato del lavoro. Nel report 2022, pubblicato di recente, AlmaLaurea fornisce una prima risposta a una domanda esistenziale: conviene laurearsi? 



La risposta continua a essere affermativa. Come in tutti i rapporti annuali precedenti. All’aumentare del livello del titolo di studio posseduto diminuisce il rischio di restare intrappolati nell’area della disoccupazione. I laureati, ricorda il report, godono di vantaggi occupazionali importanti rispetto ai diplomati di scuola secondaria di secondo grado durante l’arco della vita lavorativa: secondo la più recente documentazione Istat, nel 2021 il tasso di occupazione della fascia d’età 20-64 anni è pari al 79,2% tra i laureati, rispetto al 65,2% di chi è in possesso di un diploma. Inoltre, la documentazione più recente Ocse a disposizione evidenzia che, nel 2017, un laureato guadagnava il 37% in più rispetto a un diplomato di scuola secondaria di secondo grado. 



Dopo aver preso atto di questi dati ufficiali, AlmaLaurea si mette a “giocare in casa”. I laureati nel 2021 coinvolti nel Rapporto 2022 sul Profilo dei Laureati sono circa 300mila. Si tratta di 169mila laureati di primo livello (56,4%), 95mila magistrali biennali (31,8%) e 35mila magistrali a ciclo unico (11,5%); i restanti sono laureati pre-riforma (compresi quelli di Scienze della Formazione primaria). 

Tra i laureati del 2021 hanno iniziato a manifestarsi alcuni effetti dell’emergenza pandemica, che nel 2020 non avevano ancora avuto il tempo di emergere dal momento che l’indagine monitora l’intera esperienza universitaria. In particolare, come ci si poteva attendere, sono diminuite in modo sostanziale le esperienze di studio all’estero ed è diminuita la fruizione di alcune strutture universitarie, quali le postazioni informatiche, le biblioteche, i laboratori e gli spazi per lo studio individuale. Nell’analisi dei dati 2021 è opportuno tenere conto del fatto che gli effetti della pandemia hanno colpito in particolare gli studenti che hanno svolto una quota maggiore del proprio percorso universitario durante l’emergenza pandemica. Per questo motivo, ad esempio, gli effetti sono più evidenti tra i percorsi universitari più brevi, in particolare tra i magistrali biennali e tra quelli triennali rispetto alle lauree magistrali a ciclo unico. 

AlmaLaurea, poi, non si sottrae a sfidare una leggenda metropolitana ostile ai tirocini, segnalando che ha compiuto esperienze di tirocinio curriculare o stage riconosciute dal corso di laurea il 57,1% dei laureati del 2021. Nel 2011 erano il 55,3% e, dopo alcuni anni di sostanziale stabilità, dal 2015 si è evidenziata una costante crescita durata fino al 2019 (portando tale quota al 59,9%), cui è seguita la contrazione del 2020 (-2,3 punti percentuali rispetto al 2019) e del 2021 (-0,5 punti rispetto al 2020). Nel dettaglio, ha svolto tirocini il 56,6% dei laureati di primo livello, il 52,1% dei laureati magistrali a ciclo unico e il 60,2% dei laureati magistrali biennali; a questi ultimi si somma il 17,0% dei laureati che hanno fatto esperienze di tirocinio soltanto durante la laurea di primo livello, portando la quota complessiva di laureati magistrali biennali con esperienze di tirocinio curriculare al 77,2%. Chi ha vissuto un’esperienza di tirocinio curriculare mostra un’elevata soddisfazione: il 67,0% dei laureati esprime infatti un’opinione decisamente positiva. 

Compiere un’esperienza di tirocinio curriculare svolta e riconosciuta dal corso di laurea o un’esperienza di studio all’estero sono carte vincenti – secondo AlmaLaurea – da giocare sul mercato del lavoro: a parità di condizioni, infatti, chi ha svolto un tirocinio curriculare ha il 7,6% di probabilità di essere occupato a un anno dal conseguimento del titolo rispetto a chi non ha svolto tale tipo di attività, mentre chi ha svolto un periodo di studio all’estero riconosciuto dal proprio corso di laurea ha maggiori probabilità di essere occupato rispetto a chi non ha mai svolto un soggiorno all’estero (+15,4%). Rimangono i limiti riguardanti le esperienze di lavoro durante gli studi. 

Negli ultimi dieci anni si è registrata una flessione della quota di laureati con queste esperienze di lavoro (dal 72,9% nel 2011 al 64,2% nel 2021), flessione che risulta più marcata negli anni immediatamente successivi alla crisi economica e sostanzialmente stabile a partire dal 2015. Il calo è dunque probabilmente l’effetto combinato di una serie di fattori: la crisi economica e, più di recente, la situazione emergenziale dovuta alla pandemia da Covid-19 (che ha inciso in particolare sulla diminuzione delle esperienze occasionali durante gli studi), ma anche il progressivo ridursi della quota di popolazione adulta iscritta all’università. Più nel dettaglio, il 7,2% dei laureati ha lavorato stabilmente durante gli studi (lavoratori-studenti); un altro 57% ha avuto esperienze di lavoro occasionale (studenti-lavoratori). Specularmente, l’incidenza di laureati che giungono al conseguimento del titolo privi di alcun tipo di esperienza lavorativa è aumentata negli ultimi dieci anni e nel 2021 raggiunge il 35,6% (+9 punti percentuali rispetto ai laureati del 2011).

Il rapporto 2022 sulla condizione occupazionale prende a riferimento una popolazione pari, complessivamente, a 660 mila laureati. Il 69% dei laureati di primo livello, dopo il conseguimento del titolo, decide di proseguire il percorso formativo iscrivendosi a un corso di secondo livello; tale quota è in aumento negli ultimi anni (+13,8 punti percentuali rispetto al 2014, anno in cui, secondo le indagini di AlmaLaurea, si è registrato il tasso di prosecuzione degli studi più contenuto nel periodo di osservazione 2008-2021). Quanto alle performance occupazionali dei laureati di primo livello che, dopo la conquista del titolo, hanno scelto di non proseguire gli studi universitari (30%), nel 2021 il tasso di occupazione è pari, a un anno dal conseguimento del titolo, al 74,5% tra i laureati di primo livello e al 74,6% tra i laureati di secondo livello del 2020. Il confronto con le precedenti rilevazioni di AlmaLaurea mostra un tendenziale miglioramento del tasso di occupazione (anche se è parecchio diffuso il lavoro a termine negli anni iniziali dell’attività lavorativa, che tuttavia va riducendosi – come vedremo – nell’arco di un quinquennio). 

In particolare, per i laureati di secondo livello, nel 2021 il tasso di occupazione risulta in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto all’indagine del 2019; per i laureati di primo livello, invece, l’incremento è più contenuto (+0,4 punti percentuali). La retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è nel 2021, in media, pari a 1.340 euro per i laureati di primo livello e a 1.407 euro per i laureati di secondo livello. Rispetto all’indagine del 2019 si rileva un aumento: +9,1% per i laureati di primo livello e +7,7% per quelli di secondo livello. Nel 2021, a un anno dal conseguimento del titolo, la forma contrattuale più diffusa è il lavoro non standard, prevalentemente alle dipendenze a tempo determinato, che riguarda circa il 40% degli occupati; si tratta peraltro di valori in aumento rispetto al 2019. Inoltre, oltre il 60% degli occupati, a un anno, considera il titolo di laurea “molto efficace o efficace” per lo svolgimento del proprio lavoro. 

Nel 2021, a cinque anni dal conseguimento del titolo, il tasso di occupazione è pari all’89,6% per i laureati di primo livello e all’88,5% per i laureati di secondo livello. Rispetto all’indagine del 2019 il tasso di occupazione risulta in aumento di 0,9 punti percentuali tra i laureati di primo livello e di 1,7 punti tra i laureati di secondo livello. Nel 2021, a cinque anni dalla laurea, la retribuzione mensile netta è pari a 1.554 euro per i laureati di primo livello e a 1.635 euro per i laureati di secondo livello. Rispetto all’analoga rilevazione del 2019 si registra un aumento delle retribuzioni pari a +8,3% per i laureati di primo livello e a +7,3% per quelli di secondo livello. Nel 2021, a cinque anni dal conseguimento del titolo, la forma contrattuale più diffusa è il contratto alle dipendenze a tempo indeterminato, che riguarda oltre la metà degli occupati. Circa i due terzi degli occupati, a cinque anni, considera il titolo di laurea “molto efficace o efficace” per lo svolgimento del proprio lavoro. Praticamente si ripete la medesima valutazione compiuta dopo il primo anno. 

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