Quando ero un giovane sindacalista e lavoravo alla Fiom di Bologna, venni inviato a un corso di formazione sindacale – di due settimane – che si svolgeva a Grottaferrata, sui colli romani. Erano previsti anche momenti di contrattazione simulata, affinché imparassimo a negoziare. Uno dei partecipanti veniva incaricato di svolgere il ruolo del padrone e un altro quello del sindacalista. Ovviamente ambedue dovevano argomentare le rispettive posizioni. Quando la parte del padrone toccava a un sindacalista di una zona di Milano (ricordo solo il cognome: Turri) la simulazione – con disperazione degli istruttori – finiva subito, perché il nostro riusciva soltanto a dire che non avrebbe concesso neanche una lira di aumento. Nulla di meno, né di più. Così le trattative si rompevano ancor prima di cominciare. 



Turri era un quadro di base; da lui era difficile aspettarsi di più. Ma c’è da preoccuparsi quando – a ruoli invertiti – reagiscono come Turri, i leader di grandi organizzazioni sindacali. In verità, nessuno ha chiesto ai Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil di mettersi nei panni del Presidente della Confindustria o di Mario Draghi; nell’incontro di ieri hanno svolto il loro ruolo di sindacalisti, ma con uno sforzo dialettico non superiore a quello del giovane Turri. A leggere le dichiarazioni rilasciate alla fine dell’incontro, i dirigenti confederali se la sono cavata affermando che le risorse messe a disposizione dal Governo (6-7 miliardi per sostenere famiglie e imprese e fronteggiare l’attuale situazione di difficoltà) erano insufficienti. 



Secondo Maurizio Landini, “ora è il momento di uno scostamento” di bilancio per intervenire su salari, lavoro e pensioni e costo energia. Per recuperare altre risorse – si è sbilanciato Luigi Sbarra – servirebbe agire per “una ulteriore tassazione degli extraprofitti delle multinazionali, il reinvestimento dell’extragettito Iva e possibilità di uno scostamento di bilancio”. È facile condurre negoziati col metodo Turri invertito nei ruoli: anziché dire “non vi do nulla” basta chiedere di più. Ci si prende sempre, non si sbaglia mai. 



Intanto hanno sorpreso i dati Istat sull’occupazione di marzo. A prova che nessuno capisce (o non vuole capire) la realtà di questo “strano” Paese. A marzo la guerra era nel suo pieno sviluppo; la crisi energetica, delle materie prime e dei servizi era in corso almeno dall’autunno del 2021. Tutte le previsioni erano una rincorsa al ribasso; l’incremento dell’inflazione suscitava ragionevoli preoccupazioni; i talk show rilanciavano foschi presagi invocando una resa dell’Ucraina a cui davano il nome di pace. In questo scenario il tasso di occupazione (record che vale sia per la componente maschile che per quella femminile) ha toccato il livello più elevato da quando esistono le serie storiche (siamo vicinissimi al 60%), mentre la disoccupazione è tornata ai livelli del 2010 (8,3%). 

Seguendo l’ordine dei consueti 10 tweet di Francesco Seghezzi sul Bollettino settimanale di Adapt emerge che, rispetto a marzo 2021, l’aumento è stato di 804 mila unità. L’occupazione femminile in un anno è aumentata di 442 mila unità. Ricordiamo tutti quando di fronte a un crescendo di assunzioni i “nostri” storcevano il naso osservando che si trattava di posti di lavoro a tempo determinato (e quindi di occupazione a loro avviso fasulla). A marzo non è stato così. I nuovi occupati sono in larga parte a tempo indeterminato (+103 mila), seguiti da occupazione a termine (+19 mila). Invece, è tornata a calare (-41 mila) l’occupazione indipendente. Nell’ultimo anno, sottolinea l’Istat, gli occupati a termine sono cresciuti di 430 mila unità arrivando alla cifra record di 3,159 milioni. Quelli permanenti di 312 mila unità, tornando sopra ai livelli pre-pandemia. Mancano all’appello 215 mila autonomi.

Cresce principalmente l’occupazione giovanile nella fascia 25-34 anni con il tasso di occupazione a +0,9%, il tasso di disoccupazione a -1% e quello di inattività a -0,1%. Cresce anche la fascia 35-49 anni (tasso occupazione +0,4%), mentre sono sostanzialmente stabili quella 15-24 anni e quella 50-64 anni. Depurati dalla componente demografica i dati confermano un trend molto positivo dell’occupazione giovanile under 35. 

In sintesi: a marzo 2022 cresce l’occupazione, soprattutto femminile a tempo indeterminato e tra i 25 e i 34 anni. Evidentemente, non sono campate in aria le lamentele delle aziende e delle associazioni imprenditoriali quando segnalano un’effettive difficoltà a reperire manodopera non solo adeguata, ma anche disponibile. Non intendiamo fare dell’ottimismo, anche perché siamo convinti che la situazione politica ed economica a livello internazionale è destinata a deteriorarsi. Ci permettiamo soltanto di biasimare quanti si ostinano a rappresentare una realtà che è presente soltanto – ben che vada – nella loro percezione. Ma, nella generalità dei casi, solo nella loro propaganda. 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI