Non c’è niente da fare. Il mercato del lavoro del nostro Paese non ne vuole sapere di darci risultati negativi. Istat ha pubblicato i risultati relativi al mese di marzo e anche questo mese è pieno di segni più. Erano passate solo poche ore dal comizio di Landini per il primo maggio dove l’estensione del precariato, la disoccupazione e la difficoltà a trovare lavoro sembravano essere la descrizione della realtà e invece crescono gli occupati, aumentano i contratti a tempo indeterminato, scendono i disoccupati e restano stabili gli inattivi. La Cgil hai lanciato anche una raccolta di firme per l’abolizione delle norme sul lavoro del Jobs Act ancora in vigore come se fossero colpevoli di una situazione di crisi occupazionale e non invece la base di una fase di espansione del lavoro regolare.
Resta tragicamente attuale il tema della sicurezza del lavoro. Chiuse le bandiere delle manifestazioni ci sono stati subito tre morti per incidenti sul lavoro. Paghiamo un prezzo inammissibile a una legislazione che invece di creare situazioni di sicurezza diffuse punta a penalizzare le imprese con oneri burocratici e formali. Si dà poi fiato al nuovo populismo giudiziario chiedendo l’introduzione di un nuovo reato e di pene più severe. Di nuovo, invece di dare certezze si crede di risolvere i problemi passando ai giudici il compito che toccherebbe a legislatori accorti e a sistemi di controllo semplici e diffusi.
Tornando agli andamenti del mercato del lavoro, abbiamo un nuovo record per il tasso di occupazione, dovuto sia alla crescita del lavoro dipendente che autonomo. In dati assoluti arriviamo a 23 milioni e 849mila occupati con 425mila occupati in più rispetto ai 12 mesi precedenti. La crescita è dovuta a un incremento di 559mila dipendenti permanenti e di 46mila lavoratori autonomi. Calano di 180mila unità i lavoratori a termine.
Questi ultimi dati sono un invito a cercare di capire meglio quanto sta avvenendo. Guardando solo i dati di stock, quelli che in un dato momento ci danno la dimensione di un fenomeno, abbiamo l’impressione che ci sia una situazione statica con la crescita dovuta solo a nuovi arrivi. Il mercato del lavoro è invece fatto di movimenti continui che contribuiscono certamente a darci i dati finali che misurano le grandezze di occupati, disoccupati e inattivi, ma sono i sommovimenti che avvengono nel periodo che cambiano la struttura dell’occupazione. Il dibattito sulle grandi dimissioni ne è un esempio.
Nel periodo immediatamente successivo alla fase pandemica si è registrata un’impennata di dimissioni volontarie. Dibattito giornalistico/ideologico si è buttato sulla fuga dal lavoro, rifiuto di tornare nel chiuso degli uffici, spostamenti fuori città e altre ipotesi legate a interpretazioni sui comportamenti post lockdown. Arrivati i dati sulle nuove assunzioni è emerso che erano passaggi da lavoro a lavoro, erano spostamenti rinviati causa pandemia e ricerca di migliori opportunità lavorative da parte di chi, avendo competenze molto richieste, sia basse che medio alte, cercava una collocazione migliore.
Molto utile e interessante è l’analisi del mercato del lavoro del 2023 che ha operato l’Osservatorio del mercato del lavoro della città metropolitana di Milano. L’analisi è stata fatta proprio per capire cosa si muove sotto i dati che certificano la crescita dell’occupazione. Stiamo parlando del mercato del lavoro più importante del Paese, quello di un’area che è allineata con i dati europei. Nel 2023 Città metropolitana di Milano registra 1.507,5mila occupati, 73,9mila persone in cerca di lavoro e 518,7mila inattivi. Il tasso di occupazione è al 71,2%, quasi 10 punti in più del dato nazionale e due punti sopra alla media della Lombardia. Il tasso di attività sfiora il 75% e la disoccupazione è al 4,7%, il tasso più basso degli ultimi 5 anni.
Questo risultato è frutto però di ben 870.806 avviamenti al lavoro e 818.610 cessazioni di rapporti di lavoro nel corso del 2023. All’interno di questi movimenti si registrano anche 352.595 proroghe contrattuali e 78.955 trasformazioni di contratto a tempo indeterminato. Se confrontiamo questi dati con quelli dell’anno precedente abbiamo che sia gli avviamenti che le cessazioni hanno rallentato il tasso di crescita praticamente fermandosi alla conferma dei dati dell’anno prima. Le proroghe contrattuali rallentano ma restano in crescita e le trasformazioni a tempo indeterminato crescono ancora oltre il 10% annuo.
Sono dati che ci confermano la lettura del mercato post lockdown: una ripresa delle attività economiche con nuove assunzioni e spostamenti da un lavoro a un altro fra i già occupati. Un mercato del lavoro che torna alla “normalità” con però una crescita delle trasformazioni dei contratti a maggiore stabilità per trattenere lavoratori con competenze scarse. Questa dinamica interessa tutti i settori produttivi con poche differenze tranne che per il settore edile, con maggiore numero di movimenti e stabilizzazione più veloce presso i cantieri.
Interessante e controintuitivo è però il dato sottostante i contratti a tempo indeterminato. Se crediamo che sia il contratto del posto di lavoro a vita non conosciamo niente del modo del lavoro attuale. La durata di media di un contratto a tempo indeterminato non raggiunge i 5 anni e scende costantemente da diversi anni. Ancora più chiaro è il dato che indica in 24 mesi la durata del 50% dei nuovi contratti fatti nell’anno.
Possiamo cercare di trarre da questi dati dati alcune indicazioni. Non sono i bonus alle persone, né alle imprese che creano lavoro e occupazione. Competenze e continuo aggiornamento e formazione sono determinanti per l’occupazione e per trovare un lavoro che dia soddisfazione. Facilitare la creazione di nuove imprese e sostenere la crescita di quelle esistenti vale molto più delle sovvenzioni per nuove assunzioni. I dati su come si muove in tempo reale il mercato del lavoro locale dovrebbero essere forniti a tutti gli operatori del mercato del lavoro, Cpi pubblici o Agenzie per il lavoro. Sono la guida per orientare e sostenere l’occupabilità di chi vuole entrare nel mercato del lavoro. La stabilizzazione contrattuale, come si è visto, diventa una conseguenza della formazione e delle competenze delle persone. Da qui inizia poi la sfida contrattuale per una distribuzione del reddito che premi il lavoro dopo un lungo periodo in cui rendite e profitti sono cresciute a scapito dei salari.
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