Le rilevazioni periodiche dell’Istat e di altri centri di ricerca sull’andamento del mercato del lavoro sono diventate oggetto di interpretazioni schizofreniche. Da un lato, prevalgono le letture politiche e sindacali che tendono a descriverlo come una prateria dominata dai lavori precari e mal retribuiti, generalmente identificati con il numero dei lavoratori dipendenti assunti con contratti a termine. Sul fronte opposto, la maggior parte degli analisti delle dinamiche della domanda e offerta di lavoro e dei commentatori economici tende a rimarcare la crescente difficoltà da parte delle imprese di reperire personale disponibile per soddisfare i fabbisogni della produzione per importi che superano il 40% dei profili professionali richiesti. 



Queste letture comportano anche la richiesta di politiche di segno opposto. La rivendicazione di nuovi vincoli per le imprese per limitare l’utilizzo dei rapporti di lavoro flessibili, a termine e somministrati, e un ampliamento dei sostegni pubblici per i disoccupati e i lavoratori poveri, da parte di coloro che ritengono che la disoccupazione sia il prodotto di una carenza quantitativa e qualitativa della domanda di lavoro. La necessità di modificare in modo radicale gli approcci valoriali verso il lavoro e la qualità delle politiche attive del lavoro, riducendo nel contempo l’eccesso dei sostegni pubblici al reddito che disincentivano la ricerca di un lavoro, da parte di coloro che ritengono che le opportunità occupazionali non siano adeguatamente sfruttate per la scarsa qualità dell’offerta di lavoro.



Questa rappresentazione del dibattito italiano sulla materia rischia di apparire un po’ semplicistica, tenendo conto che i fenomeni descritti, per quanto contraddittori, possono convivere nella complessità del mercato del lavoro. Soprattutto se si tiene conto dell’impatto delle tecnologie sulle organizzazioni del lavoro che intensificano l’obsolescenza delle professioni e incrementano la mobilità del lavoro rendendo più complicato l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro anche nei mercati del lavoro più evoluti rispetto al nostro. L’anomalia italiana è rappresentata dalla difficoltà di trovare personale da parte delle imprese, che risulta più elevata rispetto a quanto avviene nella stragrande maggioranza dei Paesi sviluppati, a fronte di un tasso di occupazione decisamente più basso, e con un bacino di risorse umane disoccupate o inattive di gran lunga superiore. 



La contraddizione viene sbrigativamente liquidata da alcuni soloni della politica che accusano le imprese di non pagare adeguatamente i lavoratori, e che per evitare che quest’ultimi siano indotti in tentazione, leggi accettare un lavoro regolarmente retribuito anche se a tempo determinato, hanno scelto di allargare la platea dei beneficiari dei sostegni al reddito e di aumentare gli importi degli sussidi pubblici mensili. Una tesi che viene assecondata in modo singolare anche da una parte dei dirigenti sindacali che dimenticano di essere i firmatari degli accordi collettivi che regolano i rapporti di lavoro e le retribuzioni contrattuali. Ma, per quanto rilevante, questo aspetto offre solo una parziale spiegazione alla disoccupazione volontaria o, peggio, delle prestazioni sommerse dei beneficiari dei sostegni al reddito pubblico che in Italia rappresentano un fenomeno tutt’altro che marginale.

Per dare una risposta compiuta è necessario analizzare in profondità le caratteristiche della mancata corrispondenza tra la domanda e l’offerta di lavoro (mismatch) per comprendere le cause e, soprattutto, per individuare i percorsi per rimediarle in tempi ragionevoli. 

La più recente indagine sulla materia (Excelsior Unioncamere – Ministero del Lavoro) attribuisce la difficile reperibilità dei profili professionali richiesti dalle imprese a due fenomeni: la carenza di candidati e l’inadeguata preparazione dei potenziali lavoratori.

Nella carenza di candidati si concentrano i due estremi del mercato del lavoro: i profili con elevata specializzazione tecnico scientifica, con incidenze superiori al 60% della domanda espressa dalle imprese, e il personale poco qualificato chiamato a svolgere le prestazioni lavorative più disagiate con incidenza inferiore rispetto alle richieste, circa il 25%, ma con un peso specifico rilevante sul complesso delle assunzioni. Per cercare di rimediare il deficit di personale poco qualificato è aumentata la propensione delle imprese verso le assunzioni di persone immigrate che rappresentano, allo stato attuale, circa il 20% del totale dei nuovi avviamenti.

La preparazione inadeguata viene riscontrata in particolare per le diverse tipologie degli operai specializzati, per i conduttori di macchinari industriali e di trasporto, per gli addetti alle vendite e all’organizzazione dei servizi interni.

Negli ultimi tre anni l’incremento esponenziale della quota dei profili difficilmente reperibili, dal 24% al 42% sul complesso della domanda di lavoro, è essenzialmente attribuibile alla crescita della carenza di candidati. Segno del progressivo degrado del raccordo tra i percorsi formativi e quelli lavorativi, e della mancanza di ricambio generazionale nelle mansioni specializzate acquisite tramite esperienze professionali sul campo. Significativo, e preoccupante, il fatto che le percentuali della difficile reperibilità risultino superiori per le imprese che intendono assumere i giovani.

L’impatto delle tecnologie digitali è destinato a esasperare queste contraddizioni. Le proiezioni sui nuovi fabbisogni configurano una crescita rilevantissima della domanda di figure tecniche specializzate e un progressivo raddoppio della relativa quota sul totale della domanda di nuove assunzioni (32%), anche per il contributo offerto dalla ripresa delle assunzioni nella Pubblica amministrazione. 

In forte crescita anche il fabbisogno di figure professionali operaie e impiegatizie dotate di esperienza e competenze specifiche per sostituire gli esodi dei lavoratori anziani. La quota della domanda di lavoro finalizzata ai lavoratori con bassa qualificazione è destinata a scendere al di sotto del 20%. L’impatto di queste tendenze deve essere ponderata nel contesto di progressiva obsolescenza delle competenze e di un forte aumento delle transizioni lavorative nel mercato del lavoro indotte dalle trasformazioni digitali delle organizzazioni produttive. 

Le istituzioni formative e i servizi dedicati ad accrescere le competenze delle risorse umane e la sostenibilità delle transizioni lavorative risultano del tutto inadeguati ad affrontare i fabbisogni espressi dal sistema produttivo, sia nell’ambito della programmazione dei percorsi scolastici e universitari, funzionali a soddisfare i fabbisogni di nuove professionali con elevate competenze specialistiche che per aumentare la quantità e la qualità dei raccordi tra le esperienze formative e quelle lavorative. Gli investimenti delle imprese rivolti a favorire l’aggiornamento professionale dei propri dipendenti risultano significativi solo nell’ambito delle medie e grandi aziende. 

Le comparazioni con gli altri Paesi sviluppati relative agli indicatori dei livelli di preparazione della nostra popolazione in età di lavoro (il 40% della quale in possesso di titoli di studio non superiori alla terza media) mettono in rilievo i nostri ritardi: in termini di volume di risorse dedicate alla formazione; per il numero dei laureati e dei diplomati sul complesso delle persone in età di lavoro; di partecipazione della popolazione occupata a programmi di formazione continua nell’ambito delle imprese. 

Numeri che offrono una spiegazione del basso tasso di occupazione italiano, distante di 11 punti rispetto alla media europea, e del mancato ricambio generazionale quantitativo e qualitativo in tutti i segmenti del lavoro: l’imprenditoria, il lavoro autonomo e quello dipendente. Tutto questo in presenza di esodi pensionistici dei lavoratori anziani che si mantengono costantemente superiori al potenziale dei nuovi ingressi di giovani in uscita dai percorsi scolastici. L’attuale valore della popolazione under 35 (12,3 milioni) è del tutto simile a quello del 2008, l’anno precedente la grande crisi economica, ma quello dei giovani occupati risulta ridotto (5 milioni rispetto ai 6,5 precedenti) e la quota di quelli che non studiano e non lavorano risulta superiore ai 3 milioni. 

L’obiettivo di rigenerare in termini quantitativi e qualitativi la popolazione attiva italiana rimane la principale condizione per la tenuta del sistema produttivo e degli equilibri sociali. Appare del tutto evidente che questa sfida richiede non solo di aumentare le risorse disponibili dedicate ad aumentare le competenze, l’occupabilità delle persone e la sostenibilità delle transizioni lavorative, ma comporta l’esigenza di modificare in modo radicale gli approcci valoriali collettivi e individuali verso il lavoro, il modo di utilizzare le risorse e di valutare i risultati del loro impiego. 

Nel bilancio dello Stato, soprattutto per la voce sostegni al reddito e prestazioni assistenziali, le risorse finanziarie sono aumentate. Altrettanto quelle dedicate alle politiche attive per il lavoro con l’intervento dei fondi del Pnrr. Destinate nell’insieme a fare le stesse politiche e con le stesse metodologie che hanno accompagnato gli esiti fallimentari dell’ultimo decennio cullando l’illusione che un aumento dei provvedimenti assistenziali per il sostegno al reddito, la distribuzione di incentivi a pioggia per favorire le assunzioni a tempo indeterminato, l’introduzione di nuovi vincoli per la gestione del personale da parte delle imprese, e un incremento dei funzionari nei Centri pubblici per l’impiego, fossero in grado di rimediare le cause del degrado. 

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