Per chi aveva scommesso che dopo il Covid avremmo avuto il boom di licenziamenti a causa della fine della normativa di salvaguardia dell’occupazione è arrivato anche questo mese lo schiaffo dei dati positivi dell’andamento dell’occupazione. I gufi difensori di bonus e vincoli legislativi sono però in buona compagnia. La sinistra sindacale e politica senza più una bussola culturale, non sapendo cosa proporre quando le cose vanno bene, ha scoperto che il colpevole di tutto sta nelle norme del Jobs Act. Anche per loro i numeri che Istat fornisce ogni fine mese sull’andamento del mercato del lavoro suonano come una smentita. Ma la nuova cultura che vive solo sui social sopravvive anche alle smentite della realtà.



In ogni caso va preso atto che negli ultimi 12 mesi si sono registrati oltre 500mila nuovi posti di lavoro. La promessa “sogno” di Berlusconi che prevedeva di creare 1 milione di posti di lavoro in una legislatura viene più che doppiata dall’andamento del mercato del lavoro italiano del post-pandemia. Sappiamo bene che questo andamento positivo nasconde ancora i problemi che caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Il tasso di occupazione cresce costantemente, ma è ancora basso rispetto alla media europea. Gli squilibri delle tre G, giovani genere e geografia, non trovano soluzione nella attuale crescita. Piuttosto alcune diseguaglianze tendono ad ampliarsi. La discrepanza fra crescita dell’occupazione e crescita del Pil ci porta a ritenere che occorrono analisi più approfondite di quanto sta accadendo senza fermarci solo a quella dei dei macro dati.



Prendiamo l’esempio dei contratti. Alla crescita del numero degli occupati si accompagna quella dei contratti a tempo indeterminato. Commenti entusiasti perché avendo definito come precarie tutte le altre forme contrattuali si registrava un’inversione. Numeri alla mano la durata media di un nuovo contratto a tempo determinato è poco più di 2 anni, quella di un nuovo contratto a tempo indeterminato è 3 anni. Bastano 10 mesi a determinare la precarietà di un contratto rispetto all’altro?

Inoltre, emerge da dati più analitici che molti contratti a tempo indeterminato non sono a tempo pieno. Per tre quarti della nuova occupazione femminile sono part-time involontari, negativi da un lato, ma vedremo dopo di impatto sociale positivo. Inoltre, oggi a dettare i movimenti sul mercato del lavoro sono per lo più i comportamenti dell’offerta di lavoro che non le scelte delle imprese. Mentre si pensa al referendum contro i licenziamenti la realtà ci dice che le imprese sono impegnate in politiche per migliorare le condizioni lavorative e il welfare aziendale per trattenere i lavoratori. È abbastanza evidente che l’effetto combinato di calo demografico e carenza di giovani con alte competenze tecniche, matematiche e scientifiche costituisce un punto di forza per quei lavoratori che posseggono competenze scarse rispetto a una domanda crescente da parte delle imprese.



Cercando di vedere se i cambiamenti in corso sono ascrivibili ad andamenti diversi fra i settori produttivi possiamo ricorrere ai dati delle Comunicazioni obbligatorie dell’area metropolitana milanese. Complessivamente le nuove assunzioni dei primi mesi del 2024 vedono calare significativamente gli apprendistati e la somministrazione. Ma fra settori produttivi appaiono dati che indicano forti differenze. Le attività professionali e scientifiche vedono quasi azzerati i contratti diversi dal tempo indeterminato. La crisi delle attività legate all’editoria frena il tempo indeterminato e vede crescere contratti a termine. Anche l’edilizia vede un futuro di incertezze e crescere i tempi determinati in modo anomalo per la tradizione del settore. Restano prevalenti i contratti a termine nei servizi della logistica.

Guardando a questa realtà come fosse estendibile all’insieme del Paese potremmo identificare i settori e le professioni che usano contratti stabili per trattenere competenze scarse. Poi, i settori in fase di trasformazione e di calo della domanda che ricorrono a flessibilità da incertezza verso il mercato. Infine, un’area di servizi che data la bassa produttività e lo schiacciamento dei prezzi del settore determinando una sacca crescente di lavoro povero ricorrendo a contratti deboli e con un’ampia area grigia.

È la descrizione che esce anche dai dati, pubblicati anch’essi in questi giorni, sulla povertà. Lo sguardo generale ci dice che è cresciuta la povertà assoluta ed è diminuita quella relativa. Cercando collegare questi numeri con la situazione del mercato del lavoro, si può dire che i poveri assoluti, al netto dei pensionati, sono coloro che sommano contratti a termine di breve durata con periodi di non lavoro. La precarietà del lavoro si riflette sul reddito e li espone continuamente a situazioni, quand’anche legittime, di bassi salari e bassa probabilità di stabilizzazione.

La crescita dell’occupazione ha contribuito a diminuire la povertà relativa e la probabilità che questi nuclei famigliari scivolino verso la povertà acclarata. A questo risultato contribuisce anche il part-time involontario per lo più femminile. Ovviamente al netto del giudizio sulla disparità di genere che dobbiamo tenere presente e anche al fatto che qualora fosse l’unico reddito sarebbe un classico lavoro povero. Quando però è un reddito che si somma a un altro è quella nuova occupazione che ha permesso a molte famiglie di rispondere agli effetti dell’inflazione che hanno invece determinato il peggioramento della condizione dei poveri assoluti.

Mercato del lavoro che offre contratti di entrata deboli e con bassi salari e povertà che determina grandi difficoltà nella mobilità sociale colpiscono in modo particolare i giovani. I nuovi contratti determineranno la ripresa delle perdite salariali per i lavoratori: c’è assolutamente bisogno di un “contratto” nazionale che metta in moto una nuova possibilità e speranza per il lavoro giovanile.

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