L’Inapp, l’Istituto nazionale per le politiche pubbliche, ha presentato nei giorni scorsi il suo Rapporto annuale, che offre una fotografia del mercato del lavoro italiano dopo la pandemia e cerca, attraverso l’analisi delle problematiche che emergono nel confronto con gli indicatori europei, di dare indicazioni per potenziare le politiche che devono portare sostegno a una crescita dell’occupazione di qualità.



Come sempre la documentazione presentata è molto ampia. Occupandosi delle anomalie del nostro mercato del lavoro tocca molti aspetti e presenta approfondimenti molto utili. Non si può, in un primo articolo a commento, che toccare i temi principali cercando di fornire lo sguardo di insieme.

Dopo la pandemia il mercato del lavoro italiano ha ripreso una crescita che è andata al di là delle aspettative. Il tasso di occupazione è al massimo storico e il numero degli inattivi non è mai stato così basso. A questa apparentemente situazione di salute del mercato del lavoro fanno però da contrappeso i problemi che emergono e che fanno sì che questa crescita sia con piedi fragili e segnata da molti problemi.



Non sono i problemi segnalati da chi temeva che dopo la pandemia e la sospensione dei licenziamenti avremmo avuto una forte ristrutturazione del sistema produttivo con licenziamenti di massa. Anzi, come registrato nelle rilevazioni trimestrali, l’occupazione è costantemente in crescita. Crescono anche i contratti a tempo indeterminato e diminuisce il ricorso a contratti a termine. Se questo è l’indicatore di precarietà, come si è sostenuto per molto tempo da parte della sinistra sindacale, stiamo rendendo più stabile anche l’occupazione.

In realtà non è questa la situazione del nostro mercato del lavoro. La crescita dell’occupazione porta ad approfondire invece che occorre risanare la principale frattura che caratterizza il nostro mercato del lavoro. L’occupazione cresce in quel settore dei servizi che ha un forte utilizzo di manodopera, ha bassi salari e utilizza molti part-time, dove la produttività è rimasta particolarmente ferma in tutti questi anni e quindi sviluppa un’occupazione debole per tenuta nel tempo, per riconoscimento economico e per tempo di impiego. Si colloca qui la gran parte del lavoro povero che è cresciuto in questi anni.



Il bassi salari e la bassa produttività sono la palla al piede del nostro sistema produttivo. I salari reali sono cresciuti dell’1% negli ultimi 30 anni. Nello stesso tempo abbiamo cumulato un deficit di produttività rispetto ai Paesi G7 del 25,5%. Non tutti i settori hanno avuto questo andamento. È evidente che quelli industriali, che con la loro capacità di esportazione hanno assicurato la tenuta positiva del nostro Pil, hanno avuto un andamento diverso. Il peso però di microimprese e di una Pa sempre in ritardo con le riforme sui servizi utili al mondo della produzione pesano enormemente sulla produttività del sistema Italia.

Il risultato messo in evidenza dal Rapporto Inapp è che abbiamo 4 milioni di lavoratori “non standard”, che non hanno copertura dal sistema di welfare legato all’essere occupati. Non sono gli effetti della gig economy. La relazione mette anzi in luce come l’utilizzo delle piattaforme crei di nuovi lavori “poveri” nella logistica del food, ma abbia effetti di aumento di produttività e di occasioni di occupazione per il settore turistico.

A fronte di problemi di una domanda di lavoro che offre occupazione debole cresce però la domanda di lavoro che non trova risposta. Il mismatching fra esigenze delle imprese e formazione dei giovani che arrivano sul mercato del lavoro ha superato il 50% delle vacancy delle imprese. Questo in un mercato del lavoro che per effetto della crisi demografica sta assumendo più giovani del passato. Il tutto però con un pesante invecchiamento della forza lavoro. Nel 2002 per ogni 1000 persone con un’età compresa fra i 19 edi 39 anni vi erano 900 persone comprese fra i 40 e i 64 anni. Nel 2023 sono diventate 1.400. Fra i lavoratori sono 1.900 quelli con età fra i 40 e i 64 per ogni 1.000 della età giovane. La Pa supera ogni record con 3,9 anziani per un giovane.

In questa situazione è evidente che il fenomeno delle dimissioni volontarie, rilevato anche se più contenuto anche nel nostro Paese, assume da noi la veste di mobilità da posto a posto di lavoro da parte di quei lavoratori che hanno le competenze e la formazione più richieste dalle imprese.

Le politiche a sostegno del lavoro che sono state più utilizzate nel corso dell’ultimo decennio hanno poggiato soprattutto su vantaggi fiscali per favorire assunzioni mirate. Sono i provvedimenti a favore delle assunzioni di giovani, quelle tese ad aumentare il tasso di occupazione femminile o le misure specifiche per sostenere nuove assunzioni nel Mezzogiorno. Come insegnano i manuali di economia si sono rivelate misure di scarso effetto. Totalmente al di sotto delle attese quelle per correggere il gap maschi/femmine che pesa fortemente sul nostro basso tasso di occupazione. Ma anche le altre misure hanno dato scarsi benefici. A fronte di un periodo di forte crescita dell’occupazione giovanile la differenza rilevata fra zone con sostegni fiscali e zone limitrofe con assenza di misure di favore si limita a 2 o 3 punti percentuali.

La strada indicata dall’analisi Inapp è quella delle politiche attive del lavoro e di un nuovo grande impegno per la formazione.

Politiche attive e formazione sono però un unico grande progetto che deve vedere un regia coordinata, mentre oggi sono linee parallele con scarsi collegamenti con in aggiunta la complicazione delle attribuzioni di poteri alle Regioni. Abbiamo ancora tempo per indirizzare al meglio le risorse del Pnrr creando un sistema nazionale di formazione professionale (il nostro sistema duale) che risponda alla sfida del mismatching esistente. Insieme alla risposta alla transizione giovani-formazione-lavoro si deve uscire dalla logica burocratica data al Programma GOL per fare un modello di politiche attive che coinvolga occupati e disoccupati con percorsi di formazione che aumentino l’occupabilità degli occupati nelle transizioni tecnologiche delle imprese e portino a nuova occupazione quanti dovranno ricollocarsi.

Senza un impegno deciso e coordinato resteremo con la formazione continua, quella che interessa gli occupati, ferma al di sotto del 10% dei lavoratori coinvolti. Con un sistema duale che tocca pochi giovani e che per l’80% sono in Lombardia e Trentino Alto Adige e con un sistema di politica attiva incapace di gestire le transizioni verso nuova occupazione.

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