È di questi giorni la pubblicazione Istat, redatta in collaborazione con il Cnel, degli indicatori di misurare del BES, Benessere Equo e Sostenibile. Sulla base degli obiettivi dell’agenda Onu 2030 il BES cerca di valutare il progresso della società italiana non soltanto da un punto di vista economico, ma prendendo in considerazione gli aspetti sociali e ambientali. Il quadro complessivo è dato da un mix di dati oggettivi e anche da elementi soggettivi con riferimento alle aspettative rilevate presso segmenti di popolazione. Il focus delle analisi, riprendendo l’obiettivo della agenda 2030 del “non lasciare indietro nessuno”, è sulle diseguaglianze.
L’analisi dei dati BES è iniziata nel 2010 e ci permette quindi di prendere in considerazione il confronto temporale e anche di avere un confronto fra segmenti interni alla popolazione italiana, fra aree geografiche e rispetto a Paesi con cui è utile misurare i progressi ottenuti.
Partiamo da un confronto con gli altri Paesi europei (media Ue a 27 membri). Risultano confrontabili 38 indicatori sul totale di 158 che compongono il panel di dati rilevati.
Possiamo con soddisfazione rilevare che siamo pienamente il media con gli altri Paesi europei per quanto riguarda la soddisfazione del tenore di vita e dell’uso del tempo libero. Il dato conferma che siamo un popolo che sa fare bene di necessità virtù. Perché gli indicatori che danno in vantaggio il nostro Paese sulla media europea sono molto pochi e riguardano soprattutto due blocchi di temi, quelli della salute, mortalità infantile e mortalità evitabile, e i temi della sicurezza con riferimento ai gravi reati di sangue. Siamo messi bene anche per due dati ambientali, le emissioni di CO2 e per il contenimento dello smaltimento rifiuti in discarica.
Dopo questi dati che ci vedono in vantaggio siamo sempre sotto la media europea per tutti gli indicatori della filiera istruzione, formazione e mercato del lavoro. Se si guardano gli indicatori per genere abbiamo una situazione legata alla partecipazione femminile che è peggiore del dato generale. Solo la normativa per la partecipazione femminile nei cda ha ottenuto di fare emergere un dato positivo con riferimento al ruolo delle donne.
Guardando più da vicino i dati relativi a lavoro e formazione emergono i ritardi che caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Abbiamo alla base di tutto una bassa partecipazione al lavoro. Se misuriamo l’offerta di lavoro effettiva e potenziale che non viene soddisfatta otteniamo un 14,8% per l’Italia e l’8,7% come media Ue. Il part-time involontario interessa il 10,2% mentre nell’Ue è al 3,6%. D’altro canto il tasso di occupazione medio europeo è al 75,4% e noi siamo indietro di 9,1 punti. Sul nostro dato pesa il ritardo ancora più accentuato che riguarda il tasso di occupazione femminile che è di 13,5 punti al di sotto del tasso medio europeo (56,5 contro il 70%).
Come sappiamo i problemi del nostro mercato del lavoro vengono da un crescente mismatching con la formazione dell’offerta di lavoro, l’assenza di servizi di orientamento e servizi di sostegno per le transizioni che interessano sempre più la vita lavorativa delle persone.
A fare da ponte fra i dati del lavoro e dell’educazione c’è il nostro primato negativo per numero di giovani che non studiano né lavorano, sono al 16,1% contro la media Ue che si ferma all’11,2%. I ritardi pesanti riguardano anche i livelli di preparazione dei nostri lavoratori. Le persone di 25-34 anni con titolo di studio di livello terziario sono il 43% nell’Ue e il 30,6% in Italia. Non stiamo meglio neanche fra la popolazione lavorativa per quanto riguarda i diplomati. Siamo 14,3 punti indietro rispetto al 79,8% europeo. Sono questi dati che indicano il grave errore fatto e ancora in essere in molte regioni con il mancato sviluppo della formazione professionale a fianco della istruzione tradizionale.
Altri due dati strutturali ci indicano ritardi di sviluppo in punti strategici. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono da noi all’1,43% del Pil mentre sono al 2,27% per la media Ue. Per il ruolo che hanno le nostre esportazioni industriali dovremmo stare ben sopra la media Ue. Conseguenza della realtà dei dati visti è che la quota di lavoratori della conoscenza è ormai oltre a un quarto del totale degli occupati (ed è sempre la media Ue, mentre noi dovremmo competere con i primi), mentre per noi sono ancora di due punti sotto il 20%.
Come emerge dai confronti con i dati europei stentiamo a recuperare ritardi storici che rendono il nostro mercato del lavoro fortemente squilibrato e fonte di continue diseguaglianze. Senza addentrarci nelle differenze regionali emergono però due indicatori che devono fare riflettere e indicano anche delle priorità per le scelte della politica.
Abbiamo tutti registrato con favore che la crescita dell’occupazione dell’ultimo periodo ha visto prevalere assunzioni con contratti a tempo indeterminato. La soddisfazione per la condizione lavorativa e il calo dei preoccupati per la propria occupazione che il rapporto registra possono venire anche da questo miglioramento complessivo. Però fra i lavoratori che hanno contratti a termine aumentano quelli che sono in questa situazione da oltre 5 anni. Dal 17% al 18,1% in un anno, per altro l’anno in cui scende l’uso del contratto a termine generalizzato, è un dato che dovrà essere approfondito. Può essere una sacca di lavoro marginale dove si sommano comportamenti scorretti a orari contenuti e con spostamenti fra aziende collegate, quindi una crescente precarietà di alcuni settori lavorativi: sarebbe la risposta grigia al calo registrato nella quota di lavoro irregolare strettamente inteso. Può però essere il ricorso a questa forma contrattuale per professioni che hanno motivi organizzativi o stagionalità che richiederebbero nuove forme contrattuali per fare passare anche questi lavoratori da precari a tutelati.
La seconda osservazione riguarda il tema della nostra produttività. Però questa volta è vista dal lato dell’offerta di lavoro come inefficiente allocazione del capitale umano. Denunciamo da un lato che il nostro numero di laureati è troppo basso, ma poi il nostro sistema produttivo impiega quasi un terzo dei laureati occupati in mansioni che non valorizzano pienamente le competenze acquisite. Due sono per questo le risposte necessarie. Servizi di orientamento che indichino i percorsi di formazione terziaria più utili al Paese, che favoriscano le scelte per gli studi Stem e anche il riconoscimento dei titoli di studio dei lavoratori immigrati. Poi un piano di investimenti industria 5.0 è però indispensabile per aumentare gli occupati in ricerca e sviluppo e per fare crescere la soddisfazione lavorativa per chi ha coltivato studi e formazione di alto livello e poi trova difficoltà a trovare un’occupazione di qualità.
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