L’Inapp è l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Nasce dall’integrazione di più istituti nazionali e si sta costruendo come la sede di elaborazione di indicatori di valutazione indispensabili per governare e coordinare le politiche del lavoro nel rapporto fra indicazioni nazionali e scelte regionali. Ha ereditato anche capacità storiche di analisi dei mutamenti del lavoro e della formazione professionale e, con il suo rapporto annuale, ha un ruolo importante nel descrivere i cambiamenti del lavoro nel corso del tempo.



In questi giorni ha dedicato un convegno alla presentazione della rilevazione che svolge ciclicamente sulla qualità del lavoro. L’indagine presentata si basa su dati 2021 ed è la seconda dopo quella del 2015 che analizza sia il lato offerta di lavoro che le unità locali delle imprese. A ciò va aggiunto che l’anno dell’analisi è quello della pandemia. Un fattore che ha inciso pesantemente sull’organizzazione del lavoro.



Parlare di qualità del lavoro è riferirsi a un concetto complesso che non può che essere definito su un insieme di aspetti che contraddistinguono le diverse realtà del lavoro. Non esiste una definizione univoca che porti a dati misurabili. Si tratta di vedere la multidimensionalità che lo definisce individuando valori misurabili all’interno delle diverse dimensioni. La stessa composizione della definizione può variare nel tempo o perché si vogliono inserire nuove dimensioni.

L’Inapp lavora da tempo su un suo modello che valuta 5 dimensioni che contribuiscono alla qualità del lavoro. Sono la dimensione ergonomica (ambiente di lavoro, salute e sicurezza, orari e conciliazione vita-lavoro), la dimensione complessità (carriera, sviluppo skills, applicazione tecnologie), la dimensione autonomia (ritmi di lavoro e libertà di scelte autonome, organizzazione tempi e modi di lavoro), la dimensione controllo (scelta strategie e obiettivi e valutazione lavoro svolto, partecipazione alle decisioni), la dimensione economica (retribuzione, job security, progressione economica e tutele).



Come appare evidente non rispondono a una gerarchia e sono necessariamente aperte a variazioni dovute ai cambiamenti che l’evoluzione delle tecnologie e dell’organizzazione del lavoro hanno nel corso del tempo. Sono categorie riferite ai lavoratori e descrivono come vivono il luogo di lavoro e con quali livelli di benessere.

L’indagine sulle imprese cerca invece di valutare l’impatto che i diversi modelli organizzativi hanno, insieme alle diverse strategie delle imprese, sulla qualità del lavoro dei loro occupati.

L’analisi dei dati fotografa le variabili che determinano una bassa qualità del lavoro. Confermano che le diverse dimensioni che contribuiscono a determinarla richiedono interventi e strumenti diversificati per poter incidere sui diversi fattori. Emerge una situazione di fattori caratteristici di chi lavora in condizioni di bassa qualità che possono sovrapporsi alle problematiche delle categorie deboli che caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Mostrano un minore qualità del lavoro in cui sono inseriti i giovani e le donne. Soprattutto nel Mezzogiorno. Prevalentemente nei servizi di tipo tradizionale e con contratti a termine. Basso livello di istruzione e basse qualifiche sono le altre caratteristiche che emergono

Analisi della qualità del lavoro e quanto emerge dall’analisi economica del mercato del lavoro portano quindi a risultati analoghi. Si può dire che queste categorie di lavoratori soffrono un doppio svantaggio dovuto alla difficoltà di trovare lavoro e poi trovarne solo di bassa qualità.

Ha un forte impatto la struttura produttiva del nostro Paese. L’analisi dal lato delle imprese (sono esclusi Pa e agricoltura) considera le unità locali di produzione. Sono in totale 1.746.527. Il 59% di queste sono fino a 5 dipendenti e il 65,5% sono monolocalizzate. Il 14,5% sono con partecipazione pubblica, il 23% parte di gruppi nazionali e solo il 3,2% di un gruppo estero.

Gli elementi caratteristici considerati riguardano l’inquadramento dei lavoratori (percentuali di tempi determinati e atipici sul totale dipendenti, scelte all’assunzione), la flessibilità e le caratteristiche produttive (compatibilità con lavoro agile), partecipazione e autonomia lavoratori (autonomia gestione scelte pianificazione attività, condivisione cambiamenti organizzativi).

Si sono così delineati quarto profili di imprese. Le tradizionali di qualità (molti lavoratori a tempo indeterminato, bassa propensione smart working, media partecipazione) rappresentano il 49,7%, le ibride (buon tasso tempo determinato, basso ricorso al lavoro agile, bassa autonomia) sono il 20,6%, le resilienti (molto tempo determinato e bassa stabilizzazione, poco smart working, elevata autonomia ma senza partecipazione) risultano il 15,7%, le smart (prevalenza lavoratori stabili, elevata apertura lavoro agile, autonomia e partecipazione) sono solo il 2,2%. Il 6,4% rimanente rappresenta gruppi non riconducibili ai cluster definiti.

Dall’analisi dei dati emerge che le imprese smart sono quelle che nell’ultimo periodo hanno avuto vantaggi di mercato sotto tutti i punti di vista, produzione, fatturato, crescita economica e finanziaria. Il periodo analizzato è stato caratterizzato dalle decisioni politiche di blocco dei licenziamenti a causa della situazione sanitaria. Ciò ha determinato in modo ancora più accentuato che le imprese abituate a migliore gestione interna delle risorse umane hanno saputo affrontare il periodo con maggiore flessibilità. Chi era abituato a scartare sul mercato le proprie debolezze economiche e organizzative ha pagato un prezzo più alto e dovrà adesso affrontare una riorganizzazione più pesante.

Emerge chiaramente che un impegno anche dal lato domanda di lavoro per un’organizzazione della produzione che sia attenta a un progressivo miglioramento della qualità del lavoro diventa un fattore di crescita per lo sviluppo e la competitività dell’impresa.

Sfida complessa per il nostro sistema produttivo ancora troppo caratterizzato da forme arretrate di organizzazione delle filiere dei servizi tradizionali e con molte MPI che non fanno né filiera, né sistema.

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