Il mercato del lavoro italiano sta andando bene. La domanda di lavoro resta alta e il tasso di occupazione mantiene il trend crescente dalla fine dei blocchi dovuti alla pandemia. Restano i problemi legati agli effetti del mismatching formativo, denunciati dalla difficoltà che le aziende registrano nel trovare competenze adeguate alle esigenze della produzione, difficoltà ampliate dagli impatti che il calo demografico ha sul mercato del lavoro. La particolare situazione positiva offre la possibilità di fare analisi più puntuali sui problemi aperti e sarebbe anche la migliore condizione per attuare misure sempre più mirate verso target che hanno problemi particolari.



Alcune ricerche pubblicate negli ultimi tempi ci indicano problematiche particolari su cui sarebbe necessaria una capacità di iniziativa dell’agenzia nazionale del lavoro e delle regioni.

La prima pubblicazione che definisce meglio e in una prospettiva decennale il problema della formazione delle competenze fra i giovani è il rapporto Inapp dedicato appunto ai mutamenti decennali registrati nel mercato del lavoro.



Nel corso degli ultimi 10 anni il mercato è diventato più dinamico. Il tempo di ricerca del lavoro per chi è inoccupato si è più che dimezzato. Per la componente femminile si passa addirittura da 44 a 12 mesi. A fronte di questa dinamicità di movimento vi è però una staticità accentuata nella condizione di chi permane nel mercato del lavoro. Misurando i cambiamenti a 12 mesi sullo stato delle persone abbiamo che chi è occupato ha il 98% di probabilità di esserlo ancora (13 punti in più dell’inizio del decennio), ma anche chi è disoccupato ha la medesima probabilità di rimanerlo (era al 60% dieci anni prima).



La situazione che ha registrato maggiore miglioramento è quella dei giovani: hanno tempi di inserimento lavorativo ridotti a un terzo rispetto a dieci anni prima, più occasioni di scelta e per la parte femminile un aumento del salario medio.

Sono certamente effetti dovuti al calo demografico che però non contribuisce a cambiare due problemi per il lavoro giovanile che permangono anche a fine decennio. In primo luogo, pesa la transizione scuola-lavoro. La ricerca riporta come siano assenti servizi capaci di accompagnare i giovani a fine percorso di studio verso la prima occupazione. I servizi al lavoro esistenti, siano pubblici o privati, intercettano pochi casi. Ma non sono comunque adeguati a occuparsi di prima occupazione. Ci fossero servizi dedicati avremmo anche i dati per intervenire con adeguati interventi formativi per intervenire all’origine sul mismatching di competenze che fa denunciare quasi un milione di posti di lavoro scoperti per assenza di lavoratori con adeguata formazione.

Sarebbe probabilmente anche il modo di affrontare l’aumento registrato nel decennio di inoccupati e disoccupati con titoli di studio di livello terziario. Per un Paese che ha un basso numero di laureati nella forza lavoro rispetto alla media Ue lasciarne inoccupata una quota crescente è un vero spreco. Danno che si aggiunge alla quota di lavoratori impiegati in ruoli dove risultano sovra istruiti rispetto alle necessità.

Il 2023 era anno dedicato alla formazione. I temi indicati dal malessere e dal disagio dei giovani lavoratori sono stati solo sfiorati, ma c’è bisogno di servizi ad hoc per il passaggio scuola-lavoro e per offrire percorsi di adeguamento competenze al fine di bloccarne la dispersione.

Dalla ricerca Inapp emerge anche come sia cresciuto il ricorso ai contratti più stabili e la stabilizzazione di contratti a termine e di apprendistato. Il ricorso ad apprendistato e a contratti a tempo determinato è spesso associato all’assunzione di giovani e al tema del precariato. Una ricerca della Banca d’Italia ha cercato di capire cosa non funziona nei contratti a termine visto che l’80% dei lavoratori con questo tipo di contratto non risulta stabilizzato dopo 24 mesi. Il trend dei contratti di lavoro va quindi verso la stabilizzazione, aumentano quelli a tempo indeterminato e diminuisce il ricorso a quelli a termine, ma tra questi rimane uno zoccolo duro che non porta a stabilizzazione anche dopo l’esaurirsi del massimo di tempo utilizzabile.

Secondo i dati della Banca d’Italia, dopo 24 mesi il 20% dei lavoratori passa a tempo indeterminato, il 30% è ancora con contratto a tempo determinato e il 50% è disoccupato, in nero o, in piccola parte, autonomo.

L’analisi svolta nella ricerca porta a ritenere che questi dati derivino da comportamenti delle imprese perché sono concentrati in alcuni settori produttivi, soprattutto dei servizi a basso valore aggiunto, che a fronte dell’incertezza del loro mercato preferiscono mantenere una rotazione continua di manodopera piuttosto che una stabilizzazione e investimenti per la produttività.

La Banca d’Italia sottolinea come questo comportamento comporta un’esternalizzazione di costi dall’impresa alla collettività. Il Decreto dignità con la spinta a stabilizzare questi contratti non ha ottenuto risultati non rispondendo alle ragioni del comportamento di queste imprese. L’analisi svolta permette di leggere correttamente la situazione del ricorso al contratto a tempo determinato. Non è la madre della precarietà, come denunciato dalla sinistra massimalista e dai populisti di ogni colore. Mantiene per una quota importante il ruolo di contratto utile per affrontare picchi di produzione e, nell’industria soprattutto, si trasforma in lavoro stabile con alta probabilità.

Per i settori dove il ricorso ai contratti a termine è invece indice di imprese a basso valore aggiunto andrebbe invertita la politica rivolta a queste imprese. Per loro il contratto a termine dovrebbe costare di più e non avere vantaggi né contributivi, né fiscali. In cambio dovrebbero essere previste agevolazioni per investimenti tesi a migliorare la produttività. In assenza di questi dovrebbero scegliere se mantenere comunque lavoratori a termine più costosi o stabilizzare gli occupati.

La situazione positiva del mercato del lavoro può agevolare politiche mirate. Serve però una regia che oggi manca completamente nella complessa governance del mercato del lavoro italiano.

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