Veneto, Nordest, Italia. Qui l’anno scorso la domanda di laureati “stem” (science, technology, engineering and mathematics) è stata di 19.870 unità. Ma le imprese hanno anche ricercato 5.300 diplomati ITS. La lista dei profili richiesti vedeva ingegneri (industriali, elettronici e dell’informazione), matematici, informatici, fisici, chimici-farmaceutici, super tecnici nella meccanica e meccatronica, automazione, IT, insomma tutte le skill indispensabili all’industria 5.0, comprese le abilità personali come creatività, pensiero critico, capacità di lavorare in team e intelligenza emotiva.



Il problema è che in più di un caso su due la selezione per questi profili si è rivelata difficile, con un mismatch, un disequilibrio, che ha raggiunto picchi del 79,3% per specialisti in efficienza energetica, 72,3% per matematici e fisici, 69,6% per tecnici specializzati nelle attività meccaniche e meccatroniche. Il tutto mentre l’Istat certifica che i laureati nelle discipline scientifico-tecnologiche hanno un tasso di occupazione pari a 85,7%. È una forbice per la quale bisognerebbe studiare urgenti correttivi, da una maggiore programmazione formativa a un più efficace orientamento scolastico, fino alla messa a punto di strumenti economici e fiscali che consentano alle aziende di proporre ai candidati trattamenti più competitivi rispetto all’estero, frenando quelle fughe che da anni si soffrono.



Oggi (proprio mentre Bce e Fed perseverano nel voler aumentare il costo del denaro, sperando di frenare l’inflazione, ma di fatto rischiando di mandare in tilt il sistema creditizio), riconoscendo l’evidente sperequazione e la pochezza di retribuzioni andate assottigliandosi negli anni, si ricomincia a parlare di scala mobile o di gabbie salariali (stipendi che tengano conto della variabilità del costo della vita da regione a regione). Ma nell’attesa di vedere finalmente la vera soluzione, cioè la riduzione del cuneo fiscale sul mercato del lavoro, la strada disponibile sembra solo quella che passa attraverso le contrattazioni di secondo e terzo livello, gli accordi territoriali o aziendali, anche questi da defiscalizzare, in modo da agganciare davvero la busta paga all’inflazione e al crescente costo di vita.



Nel frattempo, sempre in Veneto, e considerando tutte le posizioni, cioè anche quelle ovviamente non stem, va in scena la resilienza. Nello scorso mese di febbraio il saldo tra assunzioni e cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a tempo determinato e di apprendistato è stato positivo per +12.700 posizioni lavorative. Ed è il miglior risultato degli ultimi cinque anni (quindi anche pre-Covid) per questo periodo. Il bilancio occupazionale (secondo il bollettino regionale di VenetoLavoro) è determinato dall’andamento particolarmente positivo sia dei contratti a tempo determinato (+8.700), reduci da alcuni mesi con segno negativo, che da quelli a tempo indeterminato (+4.100), a fronte della sostanziale stabilità dei contratti di apprendistato (-60).

Anche la domanda di lavoro registra volumi superiori a quelli degli anni precedenti. Le assunzioni sono state complessivamente 45.900, con una crescita del 9% rispetto al 2022 e del 10% rispetto al 2019. Prosegue la forte tendenza alla stabilizzazione dei rapporti a termine, in atto ormai da diversi mesi: le trasformazioni sono state complessivamente 6.100 (+15%), di cui 5.200 relative a contratti a tempo determinato e circa un migliaio per qualificazioni dall’apprendistato. In aumento anche il part-time: delle 105 mila assunzioni effettuate nei primi due mesi dell’anno, quelle a tempo parziale sono state 29.100, in aumento del 10% rispetto al 2022, mentre quelle full time sono cresciute del +6%. L’incidenza del part-time rispetto al totale delle assunzioni è pari al 45% per le donne e al 17% per gli uomini. Le cessazioni di rapporti di lavoro ammontano complessivamente a 33.200 nel mese e mostrano una crescita più contenuta (+3%). L’83% delle cessazioni sono costituite da dimissioni o dalla conclusione di rapporti a termine. In particolare, le cessazioni per volontà del lavoratore sono state 14.200, il 43% del totale, in lieve diminuzione rispetto all’anno scorso (-5%), mentre le chiusure per fine termine, che sono state 13.500, risultano in crescita (+18%).

Nonostante i saldi occupazionali generalmente positivi, l’analisi settoriale relativa ai primi due mesi dell’anno evidenzia una flessione della domanda di lavoro in agricoltura (-1,1%) e nell’industria (-3,9%), sulla quale pesa l’andamento particolarmente negativo del metalmeccanico (-5%), dell’industria chimica-plastica (-19%) e di alcuni comparti del Made in Italy (concia, legno-mobilio e calzature su tutti). Turismo e cultura, come sempre, trainano i servizi, che registrano 3.300 posti di lavoro in più e una crescita delle assunzioni del 16%. In particolare, i servizi turistici segnano un +34%, mentre nel comparto dell’editoria e della cultura il reclutamento di attori e comparse per set cinematografici ha determinato un balzo delle assunzioni, passate dalle poche centinaia degli anni precedenti alle 3.500 del bimestre appena concluso.

Nel 2023 i nuovi ingressi in stato di disoccupazione sono stati 21.900, in aumento del 6% rispetto al 2022 quale conseguenza della ripresa delle movimentazioni in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. L’incremento maggiore si è registrato per i lavoratori stranieri (+21%). Al 28 febbraio 2023 i disoccupati iscritti ai Centri per l’impiego del Veneto sono complessivamente 317.100, con una prevalenza, abbastanza stabile nel tempo, di donne (58%), italiani (74%) e lavoratori di età compresa tra i 30 e i 54 anni (48%). I giovani costituiscono il 23% del totale.

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