Finita la pandemia, dagli Stati Uniti è arrivata la segnalazione che non solo le imprese stavano cambiando l’organizzazione e gli spazi di lavoro, ma anche i lavoratori avevano deciso di mettersi in movimento. Le statistiche registrano subito dopo la ripresa della “normalità” un aumento vertiginoso del numero di dimissioni volontarie. È l’inizio di quella che viene battezzata la “great resignation”.
Anche negli Usa la ripresa post-Covid segna un aumento dell’occupazione, con cui cresce anche un potente rimescolamento degli occupati. Molte ricerche motivazionali mettono a fuoco che vi è una ricerca di condizioni di lavoro migliori. La fase di chiusura in casa forzata cui ci ha obbligato la pandemia ha portato a rivalutare tempi e modi di lavorare più concilianti con le esigenze della vita famigliare con i desideri individuali. Da qui la ricerca di posti che consentano soprattutto di conciliare meglio il ritorno in ufficio con le esigenze di tempo e spazio da dedicare alla vita privata.
La reazione psicologica del ritorno alla libertà di ritrovarci, viaggiare, partecipare a eventi collettivi, ha portato a chiedere al lavoro di riorganizzarsi e alle imprese di ripensare al loro modo di produrre e di coinvolgere in modo diverso e più flessibile i lavoratori. La stessa trasformazione tecnologica in corso con la digitalizzazione chiede una partecipazione maggiore delle persone impegnate al lavoro, una disponibilità a partecipare con le proprie doti personali, oltre ovviamente alle competenze tecniche, che porta a una richiesta di maggiore tutela per il modo con cui essere parte di un processo produttivo.
Il Covid ha accelerato una serie di processi in atto e la great resignation è il risultato di molti fattori nuovi che toccano il rapporto fra le persone e il lavoro.
In Italia abbiamo registrato nel periodo post-Covid un fenomeno simile. Anche da noi vi è stata una crescita delle dimissioni volontarie e uno spostamento fra posti di lavoro che si è accompagnato a una fase di crescita dell’occupazione.
La Cisl della Lombardia ha voluto capire meglio le motivazioni che stanno dietro questo sommovimento che interessa il mercato del lavoro e ha commissionato un’analisi e ne ha presentato nei giorni scorsi i risultati.
Intanto il primo dato che emerge è che le dimissioni in Italia non significano fuga dal lavoro, ma spostamento da lavoro a lavoro. Secondo molte ricerche, l’aumento delle dimissioni volontarie post-Covid è dovuto al rinvio della scelta causato dalla pandemia stessa. La maggioranza degli spostamenti avvengono peraltro fra imprese dello stesso settore. Nel caso dell’edilizia sono cresciute del 52% rispetto al periodo precedente e i lavoratori restano per lo più nel settore, che è in piena crescita e gode di bonus e incentivi che hanno permesso a molte aziende di migliorare le condizioni di lavoro per attrarre una manodopera sempre più scarsa.
Per raccogliere le opinioni dei lavoratori sono stati inviati questionari a 17mila dimissionari e sono state raccolte 2.248 risposte. Per il 52% sono donne, l’età media del campione è di 43 anni e si tratta per il 23% laureati e per il resto di diplomati.
Le motivazioni delle dimissioni sono sempre plurime e riguardano per gran parte quattro temi che raccolgono fra il 26% e il 36% delle risposte: eccessivo stress, clima aziendale negativo, miglioramento economico e conciliazione vita-lavoro. Si può dire che in quest’ordine di importanza almeno due di queste motivazioni sono sempre espresse e poi se ne aggiunge una più personale (stabilità contrattuale, valori aziendali e personali, ecc.). Nelle risposte femminili emergono le esigenze famigliari per un 5% in più rispetto alla componente maschile e contano meno gli aspetti economici e di interesse sul lavoro rispetto agli aspetti di conciliazione. Per i più giovani, meno di 36 anni, le ragioni prevalenti sono la conciliazione vita/lavoro (19% in più rispetto agli over 36), stress e ricerca di un lavoro più stimolante. Solo dopo queste motivazioni vengono gli aspetti salariali e contrattuali.
Come si diceva, in termini generali le dimissioni sono un cambio di lavoro non una fuga dal lavoro. Il 61% dei dimissionari aveva già un’altra offerta di lavoro e il 65% dei rimanenti si è ricollocato in pochi giorni. È quindi circa il 10% del totale che rimane in cerca di lavoro o è tornato a corsi di formazione.
In termini contrattuali quasi il 6% passa a imprenditore o libero professionista e si registra un aumento dei contratti a tempo determinato rispetto alla situazione precedente. Non è però fonte di insoddisfazione visto che l’87% si dichiara soddisfatto della scelta fatta (94 % fra i più giovani). Oltre il 92% dichiara inoltre che lo rifarebbe.
Maggiore autonomia e riconoscimento delle competenze, conciliazione vita /lavoro, trattamento economico e possibilità di carriera sono le ragioni che motivano la soddisfazione della scelta del cambiamento.
Su cosa rende attrattivo un lavoro rispetto a un altro emerge con più nettezza che in altre risposte la differenza generazionale. Per gli under 36 l’equilibrio vita/lavoro e le opportunità di crescita professionale sono le due ragioni determinanti, più della remunerazione e del clima aziendale. La stabilità contrattuale è un fattore secondario per tutti, mentre due giorni di smart working sono determinanti per i più giovani.
I risultati dell’indagine aprono una serie di domande per le rappresentanze sindacali. Le dimissioni non indicano una fuga dal lavoro, ma sono dovute alla ricerca nel lavoro di condizioni nuove. La questione salariale sarà sempre centrale per la contrattazione e la situazione inflattiva di questo periodo ce lo ricorda con forza, ma la ricerca indica che soprattutto i più giovani cercano nel lavoro anche altro. Riconoscimento delle competenze, conciliazione tra vita e lavoro. Questi temi nuovi chiedono spazio nella contrattazione aziendale e territoriale.
Anche le imprese devono riflettere sui risultati di questa ricerca. L’organizzazione rigida e verticistica non funziona più. Se chiedi al lavoratore una maggiore partecipazione nei cicli produttivi devi proporre patti più chiari sulla formazione continua e sulla crescita professionale. Si aprono nuovi spazi per una partecipazione alla gestione dell’impresa e l’avvio di un nuovo dialogo può portare a un’organizzazione del lavoro che valorizzi le persone e che risponda alla nuova ricerca di senso che i più giovani pongono anche nel come cercare soddisfazione nel lavoro.
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