La nostra Costituzione repubblicana ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che il lavoratore ha, giustamente, diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Precisa, poi, che la donna lavoratrice ha, ovviamente, gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore maschio. Le condizioni di lavoro devono consentire, quindi, l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. Tale auspicio risente, tuttavia, del contesto in cui la Costituzione fu scritta e probabilmente oggi sarebbe riformulato con parole, che contano, più adeguate al mondo presente.
Si sottolineava, poi, dopo il ventennio corporativo fascista, che l’organizzazione sindacale è libera e che i sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. Come ben noto questa parte del dettato costituzionale non è mai stata concretamente attuata.
I contratti collettivi rappresentano, tuttavia, uno strumento importante per governare i rapporti di lavoro e gestire molti aspetti tra i quali quello, non secondario, della retribuzione. In questo quadro è stato pubblicato, nei giorni scorsi, il periodico Rapporto Istat sulle “retribuzioni contrattuali” dei lavoratori italiani.
Il primo dato che emerge è che, alla fine di settembre 2024, i 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti (circa 6,2 milioni) e corrispondono al 45,8% del monte retributivo complessivo.
Si segnala che, nel corso del terzo trimestre 2024, sono stati, inoltre, recepiti 8 contratti: calzature, trasporti marittimi, alberghi, Rai, scuola privata laica, scuola privata religiosa, ceramiche, poste. I contratti che, tuttavia, a fine settembre 2024, sono ancora in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti (il 52,5% del totale).
Il tempo medio di attesa di rinnovo a settembre 2024 è pari a 18,3 mesi (erano 32,2 a settembre 2023), per i lavoratori con contratto scaduto e a 9,6 mesi per il totale dei dipendenti (17,0 a settembre 2023). Un metodo, ma anche sostanza e scelta valoriale, che, insomma, sembra funzionare un pò meglio che nel recente passato. Tuttavia, si deve proseguire su questa strada perché un sistema, seppur imperfetto, di concreta democrazia industriale, ed economica, funzioni sempre meglio e, con tutti gli aggiornamenti del caso, aiuti il Paese ad affrontare le grandi sfide del presente e del futuro.
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