In un recente articolo dedicato a sottolineare le caratteristiche dell’impatto recessivo del conflitto bellico e delle tensioni internazionali abbiamo evidenziato le conseguenze negative sulle attività produttive, in particolare l’industria manifatturiera e le aziende esportatrici, che rappresentano la parte nobile e più efficiente del nostro sistema economico. 



Sul ruolo trainante di queste attività, in termini di volumi di produzione, di produttività e di innovazione tecnologica trasferite anche sui comparti dei servizi erano fondate anche le prospettive della transizione digitale e ambientale collegate all’attuazione del Pnrr. La frattura nelle reti di fornitura di materie prime, di diverse componenti della produzione e l’aumento dei costi di approvvigionamento determinano un cambiamento di prospettiva e l’avvio di un inevitabile ciclo di riorganizzazioni della produzione dai contorni incerti. 



Misurare l’impatto in termini di occupazione non è un esercizio semplice. Nel periodo antecedente allo scenario bellico, il contributo di questi comparti in termini di crescita del valore aggiunto finale veniva stimato, intorno al 40% con un fabbisogno di nuovi occupati di poco inferiore al milione di unità nel corso dei 5 anni di attuazione del Pnrr, tra le quali circa 700mila legate alla sostituzione degli esodi per motivi di pensionamento (previsioni del sistema Excelsior Unioncamere-ministero del Lavoro).

Buona parte dello sviluppo occupazionale, per un fabbisogno complessivo, superiore ai 3 milioni di occupati, due terzi dei quali sostitutivi degli esodi pensionistici, era affidato alla crescita del settore dei servizi con un ruolo rilevantissimo della sanità, dell’assistenza e della formazione, corroborato da circa 770 mila assunzioni nella Pubblica amministrazione. 



Nel breve periodo queste stime sono destinate a essere ridimensionate per gli effetti della compressione degli interscambi internazionali e dell’impatto sui consumi legato all’inflazione e alla riduzione del clima di fiducia dei consumatori.

Nel medio lungo periodo si riducono i margini di espansione delle aziende esportatrici e assume più rilevanza il ruolo dei comparti dei servizi che , allo stato attuale, risultano essere sottodimensionati rispetto alla media dei Paesi sviluppati e di quelli aderenti all’Ue. Ma questa aspettativa si può concretizzare se vengono rimediare le criticità che hanno condizionato lo sviluppo del terziario italiano, in particolare la riduzione del tasso di investimenti e della produttività dei fattori, in particolare quella del capitale investito, nel corso degli anni 2000. La redditività di queste attività, al netto dei comparti finanziari, assicurativi, delle telecomunicazioni e dei trasporti, rimane condizionata dalla compressione dei costi del personale. Significativo il fatto che l’80% del lavoro sommerso, stimato dall’Istat nell’equivalente di 3,5 milioni di posti di lavoro a tempo pieno, si concentra nei comparti dei servizi e in particolare quelli rivolti alle persone e alle famiglie. 

Le cause del ritardo sono molteplici. Una parte di queste è attribuibile alle mancate riforme del sistema di welfare, che hanno penalizzato gli investimenti e la domanda di prestazioni nei servizi di conciliazione tra i carichi familiari e quelli lavorativi, per il sostegno della natalità, lo sviluppo dei servizi sanitari e assistenziali e per l’istruzione. Il mancato sviluppo di questi servizi ha penalizzato in particolare la componente femminile nel mercato del lavoro per le difficoltà di accesso al lavoro e per una riduzione delle opportunità occupazionali nei comparti dei servizi che in tutti i Paesi europei registrano un’elevata partecipazione femminile. 

Il lavoro sommerso nei servizi, analogamente a quanto accade nell’agricoltura e nelle costruzioni, è diventato una componente fondamentale nella formazione dei prezzi e della sostenibilità dei redditi familiari nella doppia veste degli introiti non dichiarati fiscalmente e degli sconti sugli acquisti di beni e servizi. Non necessariamente assimilabile alla sottoremunerazione dei prestatori d’opera, fatta salva la componente dei lavoratori immigrati chiamati a svolgere i lavori ingrati in condizioni inaccettabili. Queste attività economiche si mantengono redditizie grazie a mercati del lavoro paralleli, al concorso delle varie tipologie delle attività sommerse e a un’elevata flessibilità del lavoro, in parte legata alle caratteristiche stagionali della domanda.

Questo schema può essere interrotto con l’evoluzione delle organizzazioni del lavoro caratterizzate da un ampio utilizzo delle tecnologie digitali, da un forte aumento della produttività e da un miglioramento delle condizioni salariali. Questo è del tutto possibile e sta avvenendo pressoché in tutti i Paesi sviluppati sulla domiciliarizzazione degli accessi alle diverse tipologie dei servizi e delle forniture, per l’aumento delle economie di scala e della dimensione delle imprese erogatrici.

Rappresenterebbe in parallelo la risposta migliore al contenimento dell’impatto dei prezzi importati, la condizione per migliorare le prestazioni lavorative, la durata dei rapporti di lavoro e i salari. 

Potrebbe sembrare l’uovo di Colombo, e in effetti questa evoluzione è già in atto nella terziarizzazione dei processi industriali.

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