A mio avviso, una delle questioni cruciali del mercato del lavoro è il mismatch. E il segnale più vistoso di questo spreco di capitale umano risulta dal numero dei posti vacanti relativi alle ricerche di personale che, alla data di riferimento (l’ultimo giorno del trimestre), sono iniziate e non ancora concluse. In sostanza, per farla breve, sono posti di lavoro retribuiti, spesso a tempo indeterminato, che le imprese non riescono a coprire non trovando sul mercato personale adeguato se non addirittura disponibile.
Scrive, a questo proposito il Rapporto dell’Istat sulla competitività del 2022 – ovviamente con una visuale precedente agli effetti della guerra nel cuore dell’Europa che rimangono per tutti una variabile imprevedibile – che le prospettive di consolidamento della ripresa della domanda di lavoro trovano un riscontro nell’andamento crescente dei posti di lavoro vacanti segnalati dalle imprese nel corso dell’anno; ciò in un Paese in cui esiste un tasso di disoccupazione. È questo un giro di parole che serve a ribadire un dato di fatto: i posti di lavoro ci sarebbero se si trovassero anche i lavoratori in grado di occuparli.
L’incidenza dei posti di lavoro retribuiti per i quali le imprese sono attivamente alla ricerca di personale è cresciuta rapidamente a partire dagli ultimi mesi del 2020, superando già nel corso del primo semestre del 2021 i livelli del 2019. L’incremento più pronunciato dei posti vacanti si è osservato nel settore delle costruzioni, all’interno del quale il tasso di posti vacanti è salito dall’1,2% del quarto trimestre 2020 al 3,3% del terzo trimestre 2021, con un lieve calo a fine anno. Un netto aumento si registra anche nell’industria in senso stretto (dallo 0,9% della fine 2020 all’1,6% del quarto trimestre 2021) e nei servizi di mercato (dall’1,0% al 2,0%). In entrambi i casi sono stati superati i livelli del 2019.
L’incremento delle posizioni vacanti si associa a un aumento significativo della quota di imprese che segnalano difficoltà nel reperimento della manodopera necessaria per lo svolgimento della propria attività. Problemi di questo tipo sono emersi nel corso del 2021 sia nei settori della manifattura – nei quali tale quota è salita dall’1,4% al 6,1% -, sia in quelli dei servizi di mercato, dove l’incidenza di tali segnalazioni è passata dal 3,2% al 12,8%. La tendenza all’aumento dei posti vacanti, unita a una crescente difficoltà nel reperire la manodopera ricercata, sembra segnalare, in un mercato del lavoro che nel 2021 ha registrato un tasso di disoccupazione medio del 9,5%, la presenza e il possibile aggravamento di fenomeni di mismatch tra domanda e offerta di lavoro, a detrimento del potenziale produttivo delle imprese. A ciò si aggiunge una tendenza all’aumento delle cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato per dimissione del lavoratore, con flussi in uscita mediamente superiori ai livelli precedenti la pandemia.
Sulla base dei dati Inps sulle Comunicazioni obbligatorie, relativi alle attivazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro a carattere permanente, il numero di dimissioni nel complesso dell’economia risulta nei primi tre trimestri del 2021 superiore dell’8,2% rispetto allo stesso periodo del 2019. L’aumento è del 9,3% nell’industria in senso stretto e del 4,5% nei servizi, mentre registra un vero e proprio balzo (+33,9%) nelle costruzioni. Ma il mismatch è una storia vecchia, anche se trascurata dai sindacati i quali preferiscono dissimulare la loro inadeguatezza rappresentando un mondo del lavoro sfruttato e precario. Del resto i sindacati sono in buona compagnia nel semplificare la realtà. Come ha scritto Paul Krugman,”gli imprenditori offrano paghe più alte e il problema sparirà!”.
Una delle più importanti Agenzie del lavoro, la Randstad, ha pubblicato nel 2021 una ricerca che si qualifica già nel titolo: “Posti vacanti e disoccupazione tra passato e futuro”, dove si dimostra invece l’esistenza del paradosso di un elevato livello di disoccupazione associato alla difficoltà di riempire i posti di lavoro dai quali dipendono la qualità e la sostenibilità della ripresa stessa. Partendo dal concetto di “matching”, ovvero del processo attraverso il quale le competenze e le qualifiche di una lavoratrice o di un lavoratore vengono confrontate con i requisiti richiesti per riempire un determinato “posto vacante”, al fine di stabilire se vi è, in tutto o in parte, corrispondenza, la ricerca ha tracciato il grave scivolamento dell’Italia dal 2008 al 2015-2019 nel rapporto tra disoccupazione e posti vacanti: tassi di disoccupazione passati dal 6% a oltre il 10% e difficoltà di reperimento innalzatasi a livelli record.
Nel periodo, la composizione degli occupati è cambiata. Risultano, per esempio, 140mila contabili in meno, 145mila edili in meno; al contempo 144mila magazzinieri non qualificati e 77mila camerieri in più. È vero che in una certa misura sono aumentate alcune professioni/chiave, come gli specialisti in marketing (92mila in più), gli analisti software (86mila), i medici e professioni assimilate (30mila). Ma secondo la Ricerca è semplicistico ridurre la questione a un problema salariale. Quando l’innovazione è dirompente e crea discontinuità, gli aggiustamenti tra domanda e offerta di lavoro diventano più vischiosi. L’istruzione e la formazione non si adeguano immediatamente al cambiamento perché i loro processi richiedono, per definizione, tempi più o meno lunghi.
C’è forse anche un’altra dimensione che entra in gioco nelle nostre “società della conoscenza”. La qualità del lavoro, almeno per una parte rilevante delle qualifiche, sta cambiando radicalmente. Ormai non è solo la tecnologia a trascinare l’occupazione. L’investimento in lavoro e tecnologia sono diventati per molti aspetti “congiunti” e un collo di bottiglia nel primo diventa un ostacolo al secondo. In altri termini nella nostra “società della conoscenza” non sarebbe più vero che prima vengono gli investimenti fissi e poi le lavoratrici e i lavoratori. Da questo punto di vista, investimenti in tecnologia e in risorse umane dovrebbero andare ora “a braccetto”. Avrebbe senso, per esempio, assicurarsi che quando arrivano i nuovi macchinari e i nuovi “software” ci siano già le persone in grado di farli funzionare o quanto meno gli specialisti in grado di curarne l’istallazione e il collaudo.
Un altro luogo comune da chiarire è quello del rapporto tra anziani e giovani: un equivoco che ci siamo trascinati appresso al seguito di Quota 100. Secondo la Ricerca, c’è complementarietà non sostituzione tra lavoro dei giovani e quello dei meno giovani. In altre parole il lavoro degli anziani non va a scapito di quello dei giovani. Non c’è alcuna evidenza – ce ne siamo accorti – che i prepensionamenti favoriscano l’occupazione giovanile. Il caso dell’Italia negli anni seguiti alla “Legge Fornero” sembra fornire evidenze diverse. In effetti, l’aumento della disoccupazione giovanile ha accomunato i Paesi europei nelle recessioni del periodo 2008-2015, ma l’Italia ha delle aggravanti specifiche. In particolare, da noi, al di là degli effetti ciclici, il dualismo del mercato del lavoro e le politiche “passive” non hanno favorito i giovani. A tutto ciò si aggiungono il ristagno perdurante della produttività e gli insufficienti livelli degli investimenti, in particolare in innovazione. È questa la morsa in cui sono chiusi i giovani italiani.
Un altro importante chiarimento riguarda la produttività. Le imprese, grandi o piccole, hanno i loro mercati del lavoro “interni”. Tipicamente oggi in Italia all’interno delle imprese valgono (anche dopo il “Jobs Act”) le distinzioni tra contratti a tempo indeterminato, contratti a tempo determinato, contratti in somministrazione e altri contratti. I contratti a tempo indeterminato rappresentano un “nocciolo duro” dei dipendenti attraverso i cicli. All’aumentare delle attese di fatturato occorre ricorrere a contratti “complementari” che potranno essere flessibilmente ridotti quando le aspettative rientrano. I lavoratori assunti attraverso tali contratti potrebbero avere una produttività addirittura più alta nello svolgere attività mirate e che si inseriscono in processi ben definiti. La bassa produttività è un vincolo per le retribuzioni. Così molti giovani validi “votano con i piedi” e si trasferiscono all’estero.
Tra questi, 182mila laureati in dieci anni, secondo l’ultimo rapporto Istat sull’emigrazione: un dato, ad avviso della Ricerca, probabilmente sottostimato. Come indicano le risposte all’indagine Randstad presso le aziende, sono le competenze tecnologiche e tecnico-scientifiche che vanno sviluppate a tutti i livelli delle risorse umane, certo insieme a quelle “trasversali”, quali le capacità di far lavoro di squadra, di negoziare, comunicare. Non bisogna mai dimenticare, avverte Randstad, che il Paese attraversa una sfida economica e sociale fatta di innovazioni dirompenti che vanno affrontate con la focalizzazione su risorse umane adeguate e con approcci radicali, attraverso un combinato della formazione di base, della riqualificazione e del miglioramento continuo delle competenze, i cosiddetti skilling, upskilling e re-skilling, come condizioni indispensabili per affrontare con successo le grandi trasformazioni attese nei prossimi anni.
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