Negli anni immediatamente successivi a quelli della pandemia da Covid-19 si è assistito a un repentino recupero dell’economia di tutti i Paesi europei, che si è accompagnata a un crescente tasso di occupazione e una riduzione dei tassi di giovani Neet, ovvero di giovani che non studiano e non lavorano. Questo miglioramento generale del quadro economico ha riguardato anche l’Italia che, sin dal 2014, ha fatto registrare le percentuali di giovani Neet tra le maggiori di Europa.
Come è ben noto, la pandemia da Covid-19 si diffuse nei primi mesi del 2020, ma i suoi effetti sull’economia, oltre che sugli stili di vita, si sono prolungati fino al 2021 inoltrato. Confrontando i dati sui tassi di Neet del 2018 con quelli del 2022, tutti i Paesi europei a eccezione di Romania, Repubblica Ceca, Islanda e Germania, hanno registrato un decremento. In Italia, in base ai dati Eurostat, tale decremento è stato di 3,8 punti percentuali. Tuttavia, nonostante tale riduzione, nel 2022, l’Italia era ancora il Paese con i tassi più elevati.
In un recente lavoro scientifico da noi curato, basato su elaborazioni sui microdati EU-SILC, l’Indagine sul reddito e le condizioni di vita, svolta con modalità simili in tutti i Paesi europei, è però emerso un quadro estremamente preoccupante.
Nel nostro studio abbiamo analizzato la situazione dei giovani di 19 Paesi europei focalizzandoci principalmente su quelli dell’Europa occidentale e su una selezione dei Paesi dell’Est, escludendo quelli scandinavi. Piuttosto che basarci sulla classe di età dai 15 fino ai 29, cui fa riferimento l’indicatore più comunemente consultato, abbiamo considerato quella dai 15 fino ai 34 anni. Questa scelta è in linea con la predominante letteratura socio-economica sul tema, in virtù del prolungamento del numero medio di anni di studio e di quelli di transizione scuola-lavoro, specialmente nei Paesi Mediterranei.
Abbiamo stimato l’effetto della pandemia da Covid-19 confrontando il rischio di ricadere nella situazione di Neet (ovvero di risultare disoccupato o inattivo) per i giovani nel 2018 e i giovani nel 2022 controllando per una serie di caratteristiche personali, quali il livello di povertà familiare, il titolo di studio, il genere, lo stato civile, lo stato di salute e l’eventuale condizione di migrante. Lo studio ha evidenziato che mentre per i giovani di età inferiore ai 25 anni la situazione nel post-Covid-19 è significativamente migliorata, quella dei giovani dai 25 ai 34 anni è invece estremamente peggiorata. Sui 19 Paesi analizzati, a esclusione di Irlanda, Romania e Grecia, il rischio di diventare Neet nel 2022 tra gli over 25 è risultato maggiore ovunque, Italia compresa.
Una possibile spiegazione di tale evidenza è da collegarsi alla particolare situazione in cui i giovani si sono trovati durante la pandemia. Coloro che durante la pandemia erano ancora impegnati nello studio hanno beneficiato a pieno della ripresa economica che si è verificata subito dopo; per i giovani che, invece, erano già sul mercato del lavoro, o perché in cerca di occupazione o perché occupati, la crisi da Covid-19 ha rappresentato nella maggior parte dei casi una battuta di arresto, che si è manifestata con un prolungamento del periodo di transizione scuola-lavoro o ha condotto al loro licenziamento o, plausibilmente ancora più spesso, a un’interruzione di un contratto di lavoro a tempo determinato.
Diversi studi hanno infatti evidenziato che tra i gruppi di persone più colpiti dalla pandemia vi è senza dubbio quello dei giovani, per una serie di motivi. Infatti, per coloro che erano in cerca di lavoro, il periodo della pandemia ha rappresentato un periodo di pausa forzata, per la sospensione di diverse attività e la crisi che ha interessato la maggior parte delle imprese, che quindi soltanto in casi molto rari non hanno interrotto le assunzioni. Per i giovani che invece lavoravano, il Covid-19 ne ha molto spesso determinato il licenziamento oppure la mancanza del rinnovo del loro contratto. I giovani, infatti, più frequentemente degli adulti trovano occupazione in alcuni dei settori che sono risultati maggiormente colpiti dalla pandemia, come il settore del turismo, della ristorazione, dell’industria dello sport e del divertimento più in generale. I giovani risultano inoltre, e più spesso degli anziani, lavorare con un contratto a tempo determinato o comunque in condizioni di maggiore precarietà. Inoltre, in caso di licenziamenti, le imprese tendono solitamente ad applicare il cosiddetto principio LIFO (Last In, First Out), ovvero preferiscono licenziare coloro che sono stati assunti per ultimi, in quanto non ancora formati o perché, essendo giovani, più raramente hanno figli e/o coniuge a carico.
Apposite elaborazioni su dati EU-SILC ci mostrano, infatti, che in Italia nel 2022 la differenza nella percentuale di giovani Neet tra la classe di età 25-34 anni e quella al di sotto dei 25 anni era pari a 8,21 punti percentuali, tra le più alte rispetto agli altri Paesi. Un gap superiore è stato registrato soltanto in Repubblica Ceca, Spagna, Grecia e Bulgaria. Da una parte, questo risultato non sorprende, se si pensa che il tasso di giovani Neet è calcolato ponendo a numeratore il numero di giovani che non studiano e non lavorano e al denominatore il totale della popolazione della stessa fascia di età. Gli studenti, pertanto, che sono molto più numerosi nella classe di età fino ai 25 anni, entrano nel computo solo al denominatore, riducendo pertanto il quoziente. Se si pensa però al fatto che la stessa differenza nel 2018 era di poco superiore al 7% è ragionevole pensare che vi sia effettivamente stato un peggioramento.
A conferma di ciò, sulla base dei dati dell’Indagine delle Forze di Lavoro del 2020, si sono confrontate le condizioni occupazionali degli stessi giovani nel 2019 e nel 2020. Focalizzando l’analisi su coloro che hanno dichiarato di non essere studente né nel 2019, né nel 2020, sono state costruite le matrici di transizione considerando gli stati di occupato, disoccupato e inattivo (non studente). Ci si dovrebbe attendere che per coloro che hanno un’età dai 25 ai 34 anni la stabilità lavorativa sia molto più forte rispetto ai più giovani. Infatti, la percentuale di coloro che erano occupati nel 2019 e lo erano ancora nel 2020 è risultata di ben 5 punti percentuali superiore tra i 25-34enni (91,51% vs 85,35%).
Ciò che invece risulta sostanzialmente più frequente tra gli over 25 è la percentuale di coloro che erano inattivi nel 2019 e lo sono rimasti anche nel 2020 (87,57% vs 81,47%), mentre coloro che sono passati da inattivo a occupato è sostanzialmente inferiore tra i più grandi (6,85% vs 8,82%). Sarebbe stato interessante ripetere l’analisi considerando le transizioni tra il 2020 e il 2021, ma un cambiamento nei contenuti informativi dell’indagine forze lavoro non ha reso possibile percorrere tale strada.
In conclusione, questi dati mostrano la permanenza di difficoltà tra i giovani nella fase di transizione dalla scuola o dall’università al mondo del lavoro e un prolungamento sempre maggiore dell’età in cui viene ottenuto il primo lavoro stabile.
Per combattere questo problema è possibile intervenire in diversi modi. Prima di tutto, potenziando gli uffici di pubblico impiego e la loro capacità di seguire appropriatamente i giovani disoccupati, proponendo loro offerte di lavoro consone con la loro formazione od opportunità di training per accrescerne l’appeal sul mercato del lavoro. In secondo luogo, aumentando e diversificando le opportunità di formazione, in un’ottica di formazione continua, che serva a potenziare competenze e skills per coloro che hanno interrotto presto gli studi, ma anche per aggiornare le competenze già acquisite, in particolare quelle soggette velocemente a obsolescenza in virtù della rivoluzione digitale che sta attraversano il mercato del lavoro.
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