Il rinnovo dei contratti va a rilento. Si deve anche a questo il ritardo nel recupero dei salari sugli effetti dell’inflazione. Non è l’unico elemento, certo conta maggiormente la bassa crescita della produttività del sistema Italia, ma nell’intendimento comune un contratto in scadenza dovrebbe essere rinnovato senza ritardi che arrivano a svariati anni.
Il Cnel ha reso noti i dati sui contratti depositati presso il suo archivio. Alla fine del 2023, sul totale dei contratti ne risultano rinnovati solo il 41%. Solamente il settore dei chimici supera il 65% di contratti rinnovati, meccanici e servizi sono al 50% e tutti gli altri sono sotto il 40% o appena sopra. Se in numerosità di contratti siamo messi male, va tenuto conto che alcuni contratti hanno clausole di salvaguardia per le revisioni salariali in vacanza di rinnovo e soprattutto che a un numero basso di contratti fa riferimento la stragrande parte dei lavoratori.
I dati Cnel forniscono un quadro utile al dibattito sui contratti più utilizzati e sulla rappresentanza sindacale. Intanto va detto che in termini di contrattazione l’anno scorso ha visto un’attività intensa: sono stati depositati al Cnel 202 accordi sottoscritti, che anno interessato 171 contratti per rinnovo o per aggiornamenti di clausole contrattuali.
La fotografia aggiornata dell’archivio contratti ci dice che ve ne sono depositati 1.033. Di questi 971 fanno riferimento al settore privato, 18 al pubblico e 44 sono accordi collettivi di lavoratori autonomi e parasubordinati.
Non tutti i contratti hanno però lo stesso peso. Prendendo i contratti che sono applicati ad almeno 100mila dipendenti, sono solo 28 contratti nazionali, il 3,2% del totale. Vengono però applicati dal 79,6% delle imprese private per un totale di poco meno di 11 milioni di lavoratori dipendenti (al netto dei lavoratori agricoli e dei lavoratori domestici). Rappresentano perciò il contratto di riferimento per il 78,8% dei lavoratori italiani.
Se prendiamo in considerazione i contratti che coprono almeno 10mila lavoratori aggiungiamo ai dati precedenti altri 71 contratti (8%), 260mila imprese con 2 milioni e mezzo di lavoratori.
In tutto abbiamo che 99 contratti, l’11,2% del totale, sono applicati dal 96,5% delle imprese private e tutelano 13,4 milioni di lavoratori, pari al 96,9%.
In fondo alla statistica vi sono 645 contratti, 72%, applicati da 10.500 aziende per complessivamente 48mila dipendenti, lo 0,3% del totale.
Con un numero di contratti così alto potremmo ritenere che vi sia anche un alto numero di associazioni di rappresentanza e una dispersione di accordi sindacali. I numeri ci dicono una cosa diversa. Infatti, 210 contratti di carattere nazionale sono sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil e rappresentano 13,362 milioni di lavoratori. Sono circa 400 i contratti sottoscritti da altre associazioni sindacali rappresentate al Cnel e per la stragrande maggioranza sono contratti che riprendono quelli di categoria già sottoscritti dai sindacati maggiori.
Vi sono infine 309 contratti firmati da sindacati non presenti nel Cnel e rappresentano in totale 49.561 lavoratori, mediamente 55 lavoratori per contratto.
Dalla fotografia che questi dati ci forniscono emerge un Paese dove la rappresentanza sindacale gode ancora di una buona salute. La contrattazione attuata dalle principali rappresentanze non solo assicura la base delle tutele di grandissima parte dei lavoratori, ma è anche applicata dalla stragrande maggioranza delle imprese. Talvolta da molte anche non aderenti alle associazioni di rappresentanza. Segno questo di un riconoscimento degli effetti dei contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil che è già per la stragrande parte del mondo del lavoro la base di riferimento dei rapporti aziendali.
È dal riconoscimento di questa importante caratteristica del sistema delle relazioni sindacali del nostro Paese che bisogna partire per affrontare i temi nuovi che sono davanti alle rappresentanze economiche e politiche. Sia per la discussione sul giusto salario (salario minimo è una visione parziale del problema), sia per il valore “legale” delle rappresentanze e dei contratti maggiormente rappresentativi, non si può che tenere conto del significato sociale che i dati del Cnel indicano.
La presenza di forti corpi sociali di rappresentanza degli interessi economici è un punto di forza che va salvaguardato. Una politica che ritiene di poter risolvere i problemi sociali disintermediando e riducendo il ruolo delle rappresentanze è contro una ricchezza di esperienze che caratterizza la nostra storia sindacale.
Si presenterà inoltre fra breve tempo una nuova frontiera dove trovare umana soluzione per un tema insieme legislativo e che riguarda la rappresentanza e la capacità di trovare nuove soluzioni contrattuali. Anche la Commissione europea si è accorta che sotto al termine stages si sono diffusi abusi che sono diventati in quasi tutti i Paesi dell’Unione una penalizzazione per il lavoro giovanile. Preso atto della situazione è stata presentata in questi giorni una proposta di direttiva che si vorrebbe approvata prima dello scioglimento del Parlamento per le votazioni.
Al centro della Direttiva vi è il principio che stagisti e tirocinanti non possono avere un trattamento diverso dai lavoratori impiegati in quell’azienda. Per il nostro Paese, dove sono rapporti di lavoro non equiparati ai contratti dei lavoratori dipendenti non prevedendo salario commisurato, né contributi previdenziali, si porrà un tema importante.
La direttiva fissa quattro principi. Il primo, come già detto, uniforma il trattamento contrattuale a quello dei lavoratori dell’impresa e precisa che solo motivi oggettivi possono essere posti alla base di differenze salariali. Fissa poi obiettivi per sistemi di verifica e controllo contro usi indebiti dei contratti di inserimento lavorativo, indica come una necessità che vi sia una rappresentanza sindacale per stagisti e tirocinanti e, infine, ritiene necessaria la previsione di canali dedicati e tutelati per la denuncia di abusi.
Da tempo da noi sono in discussione proposte per rendere stages e tirocini veri e propri contratti che rendano ai giovani un trattamento equiparato agli altri lavoratori dell’impresa. Vista la fretta europea potremmo accelerare le proposte già avanzate nel nostro Parlamento per dare prova che un Paese a forte rappresentanza sindacale è più capace di legiferare e rafforzare le forme associate di rappresentanza sociale.
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