Il 13 settembre Istat ha pubblicato i dati sul mercato del lavoro nel secondo trimestre 2023. Si cominciano a percepire anche sul mercato del lavoro i segni di rallentamento che caratterizzano l’andamento del Pil e della produzione industriale.
L’input di lavoro, misurato dalle ore lavorate, diminuisce rispetto al trimestre precedente (-0,5%), anche se risulta ancora in crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+1,3%).
Gli occupati crescono ancora (+129 mila) rispetto al primo trimestre (+0,6%). Alla crescita contribuiscono sia lavoratori a tempo indeterminato, che salgono di 130 mila unità, che lavoratori indipendenti che salgono di 23.000 unità, mentre calano i dipendenti con contratti a termine (-25.000). I dati dell’occupazione sono positivi anche rispetto all’anno scorso.
Tutti i tassi migliorano: il tasso di occupazione arriva al 61,3%, la disoccupazione passa al 7,6%: tutto bene, se non conoscessimo già i dati di luglio, con occupati in calo e disoccupati e inattivi in crescita.
Se guardiamo i dati del lavoro dentro alle imprese, la fase di rallentamento è confermata da alcuni indicatori. Scendono le ore lavorate per dipendente rispetto al trimestre precedente (-1,9%), ma restano invariate rispetto allo scorso anno. La discesa delle ore lavorate per dipendente dipende anche dalla crescita moderata (+0,7%) delle posizioni lavorative. In calo risultano le posizioni in somministrazione (-3,2% su base annua); gli indicatori sulla somministrazione sono il “canarino in miniera” dell’andamento di mercato e cominciano a calare per primi in caso di aspettative congiunturali al ribasso. Il costo del lavoro resta stabile, con le retribuzioni in aumento rispetto al trimestre precedente dello 0,3% compensate da una riduzione degli oneri sociali. Su base annua la componente retributiva è cresciuta del 2,1%. Ancora alto e leggermente in crescita il numero di posti che risultano vacanti nelle imprese.
Insomma, il quadro complessivo è quello di un’economia che rallenta alla fine della corsa che ha consentito di recuperare le perdite dovute al Covid. Al momento l’input di lavoro è stabile con alcuni indicatori negativi, ma la corsa a recuperare competenze sul mercato non si è conclusa. Gli indicatori di posti vacanti e il calo del tempo determinato indicano un processo di ristrutturazione interna a molte imprese che faticano a completare gli organici.
Ne beneficiano i lavoratori over 50 e in generale le competenze più alte come i laureati e diplomati. Fra i disoccupati sono in lieve aumento gli scoraggiati, mentre sono in calo gli inattivi. Nei processi di ricerca del lavoro continuano a prevalere i canali di ricerca informale (reti di conoscenti, amici e parenti) che sono utilizzati dal 76,6% del milione e 905 mila disoccupati; tra i canali formali cresce il ricorso ai Centri per l’impiego (24,9%, +3,5 punti di quota), mentre resta stabile il ricorso alle agenzie private (19,5%) e la domanda o prova di concorso (11%).
Gli indicatori di offerta mostrano una disponibilità di lavoratori ampia, ma forse non sufficiente a colmare la richiesta in termini qualitativi. La crescita dei salari, anche su base annua, non recupera l’inflazione. Il registro annuale del costo del lavoro individuale (Racli) gestito da Istat ha pubblicato ad agosto alcuni dati sulle retribuzioni fra il 2014 e il 2020. Ne emerge chiaramente un quadro dove i lavoratori che hanno cambiato posizione lavorativa nei 6 anni considerati hanno avuto aumenti significativi sia in termini di retribuzione oraria (+11,4%) sia in termini di retribuzione annua (+9,7%) rispetto ai lavoratori con unica posizione lavorativa (+11% di retribuzione oraria e +4% di retribuzione annua).
Chi ha cambiato lavoro mediamente è stato premiato rispetto a chi ha mantenuto un posto solo. La stessa Istat sottolinea che “la dinamica retributiva migliore, in termini di retribuzione annua, si osserva per i lavoratori transitati da imprese di piccolissime dimensioni a imprese con almeno 50 dipendenti (+42,4% se hanno transitato verso un’impresa con meno di 250 dipendenti e +56,1% se verso un’impresa con almeno 250 dipendenti)”. Nessuna meraviglia allora che ci siano “grandi dimissioni” o “grandi migrazioni” in periodi di inflazione crescenti: se le politiche salariali delle imprese non garantiscono la crescita, si cambia.
L’inevitabile dibattito su flessibilità, grandi dimissioni e motivazioni del lavoro non si riduce tutto alla questione dei soldi, ma senza introdurre la variabile salariale ci si capisce ben poco.
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