In Italia, si assiste a un fenomeno statistico che ha dell’assurdo: ci sono molti disoccupati, anche di lungo periodo, e le imprese che offrono posti di lavoro non trovano sufficienti persone sul mercato. Infatti, alla fine del 2023, l’Istat ha stimato che i disoccupati erano il 7,2%, ossia c’erano oltre due milioni di persone che cercavano attivamente un lavoro e sarebbero state immediatamente disponibili a lavorare. Tra i non-occupati, esiste un ulteriore contingente – detto NEET – di circa 1,7 milioni di persone in età da lavoro che non solo non lavora né studia, ma che non dà segni di voler lavorare. Ambedue i fenomeni sono in calo.
Per contro, le imprese – tramite l’indagine Excelsior di Unioncamere-Anpal – affermano di aver cercato, durante il 2023, persone da inserire e di non averne trovate nel 46% dei casi (percentuale in crescita rispetto al 2022). E, si badi bene, non è che le hanno trovate al secondo tentativo: in quell’anno, circa due milioni di posti offerti sono rimasti scoperti e, quindi, sono difficili da recuperare.
Non basta: i progetti inerenti al Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), secondo uno studio prospettico di Anpal-Unioncamere, dovrebbero occupare non meno di 80 mila nuovi lavoratori l’anno per i prossimi cinque anni. Nomisma stima il fabbisogno addizionale di occupati a circa 100 mila lavoratori l’anno. Quindi, il fabbisogno dei prossimi anni è di almeno 100 mila nuovi posti di lavoro ogni anno, anche perché le proiezioni dell’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, indicano che la carenza di persone in età da lavoro (convenzionalmente: 15-64 anni), rebus sic stantibus, si acuirà gradualmente negli anni a causa del calo delle nascite. Così, la popolazione italiana in età 15-64 anni si ridurrebbe prima della fine del secolo di almeno 4 milioni, rispetto agli attuali 23,6 milioni.
Dunque, i fenomeni evidenziati sono di grave entità, sono consolidati da decenni, si manifestano in parallelo ma si sviluppano intersecandosi, nel senso che agiscono sulla società e sull’economia in modo sinergico, riducendo la capacità di reazione sia dell’una che dell’altra. Quindi, se le cose non cambiano, il divario tra domanda e offerta di lavoro, in Italia già malmesso, nel futuro andrà ancora peggio.
Vediamo come vanno le cose negli Stati europei con cui di solito ci confrontiamo. Oggi nel mondo siamo circa 7 miliardi, alla fine del secolo saremo intorno ai 10 miliardi, forse 10,5, con un netto predominio di India e Cina e con la triplicazione della popolazione africana. In Europa, invece, la popolazione diminuirà, anche se in modo diseguale. Resteranno più o meno dello stesso ordine di grandezza Germania, Francia e Regno Unito; perderanno peso i Paesi che non hanno avuto il coraggio di percorrere politiche serie di incoraggiamento alla natalità, come l’Italia e la Spagna. Il declino dell’Italia potrebbe essere attenuato se avviassimo immediatamente politiche capaci di invertire la tragica cultura della denatalità e se riuscissimo a sciogliere alcuni nodi strutturali che l’accompagnano
L’inversione della propensione culturale delle famiglie italiane verso la natalità si può realizzare allo stesso modo in cui l’hanno realizzata paesi come la Francia, la Germania e il Regno Unito, ossia rendendo manifesto il principio dei figli come patrimonio collettivo. Anche in questi Paesi un figlio resta il frutto di (e, a sua volta, alimenta) l’affetto di chi l’ha generato, ma è condiviso il principio che una nuova generazione è una risorsa sociale e, quindi, che i figli vanno presi per mano anche dallo Stato finché diventano autosufficienti. E le loro famiglie sono, correlativamente, accompagnate e incoraggiate nel processo di crescita. Alcune proposte per invertire la tendenza alla natalità in Italia si possono trovare qui.
La pluridecennale denatalità ha già assottigliato la popolazione che oggi è in grado di lavorare e ha determinato notevoli cambiamenti nella composizione dei lavoratori. Infatti, negli ultimi dieci anni:
– la percentuale di lavoratori attivi è cresciuta di circa il 5%, ma il numero assoluto di lavoratori assunti è diminuito, poiché è diminuito il numero di persone in età da lavoro;
– la classe di età nella quale si è riscontrato il massimo incremento occupazionale è quella dei 50-64-enni che sono stati appena sfiorati dalla denatalità degli ultimi tre decenni;
– è aumentato, anche se in modo non vistoso e con contratti particolari, il numero di lavoratori di 65 anni o più, in particolare tra i liberi professionisti e nelle posizioni che richiedono elevata professionalità tecnica e capacità di giudizio strategico;
– si sta modificando la composizione per genere della forza lavoro, con un aumento assoluto e percentuale di donne lavoratrici.
Consideriamo il caso della popolazione ultrasessantacinquenne, la quale è statisticamente considerata non più in età da lavoro, ma che l’Ue e la Legge Fornero hanno in parte già riclassificato. Infatti, oggi, la popolazione vive più a lungo e in uno stato di salute migliore che nel passato: la quota di cosiddetti anziani è considerevolmente aumentata negli anni e il numero di anziani attivi è aumentato correlativamente. Per anziani attivi s’intendono non solo quelli, importanti, che tengono i nipoti, bensì quelli che svolgono attività professionali compensate. La quota di questi anziani è destinata ad aumentare considerevolmente con l’arrivo ai 65 anni della generazione degli attuali 50-64-enni. Inoltre, si consideri che l’Eurostat prevede che, prima della fine del secolo, la speranza di vita aumenterà di altri cinque anni.
Il primo, semplice, provvedimento per far crescere (quantitativamente e qualitativamente) il mercato del lavoro è di non ostacolare l’impiego di ultrasessantacinquenni nelle attività produttive. Si tenga, infatti, conto che: a) il compimento dei 65 anni non è più l’età dopo la quale la resa produttiva ha un tracollo, anzi, per molti rappresenta l’apice della resa professionale, né è l’età dopo la quale non si è più in grado di reggere i ritmi produttivi se la possibilità di lavorare è contemperata con il tipo di attività; b) il tipo di professionalità che queste persone sono in grado di esprimere non “ruba” lavoro alle nuove generazioni che sono all’inizio della carriera, per cui si tratta di contemperare le due esigenze.
In Italia, il dibattito sull’età lavorativa si è cristallizzato sull’età di uscita da lavori manuali e logoranti. Ci sono, invece, attività specialistiche e organizzative che possono essere considerate in modo ben diverso. Il numero degli attuali occupati in Italia dopo l’età pensionistica è basso, anche perché il lavoro dopo la pensione è, in vario modo, scoraggiato e quindi nascosto alle statistiche. Chi vuole svolgere attività produttive dopo i 65 anni dovrebbe, invece, essere garantito, ossia né obbligato, né ostacolato a farlo: il vantaggio sociale sarebbe notevole. Per avere termini di paragone, si consideri che, negli ultimi dieci anni, i lavoratori tra i 65 e i 74 anni sono quadruplicati in Francia, triplicati in Germania e aumentati notevolmente in Spagna, Irlanda e Repubblica Ceca. Quindi, non solo sarà inevitabile spostare il pilastro dell’età lavorativa di vari anni in avanti, ma, anche da subito, dovrebbe essere data la possibilità a chi lo desidera di continuare l’attività professionale dopo tale limite.
In aggiunta, a chi può lavorare solo a certe condizioni, va ulteriormente garantita la possibilità di lavorare part-time e da remoto (da alcuni detto smart working). In questo modo, si potrà non solo aumentare il lavoro delle persone impegnate in attività domestiche, ma si potrà anche liberare una quota di NEET vincolati da situazioni contingenti di difficoltà e far emergere una parte del lavoro sommerso insito nelle statistiche sui NEET.
Un’altra linea di attacco al problema del divario tra le offerte di posti di lavoro e le candidature di lavoratori è quella di contenere la percentuale di giovani che trova lavoro all’estero. Ogni anno, infatti, una quota crescente di giovani cerca lavoro all’estero dopo averlo cercato e, spesso, dopo averlo provato in Italia. Quelli più propensi a cercare lavoro all’estero sono i laureati: nel 2022 sono stati l’8% e sono stati circa il 7% ogni anno nell’ultimo decennio. Costoro vanno a lavorare con successo in Paesi (prevalentemente: Germania, Francia, Svizzera) che già hanno quote di laureati superiori alla nostra. Quindi, una parte importante della crema professionale del Paese se ne va perché non trova in casa ciò che cerca, ossia un reddito e uno sviluppo di carriera congrui.
Questo dovrebbe far riflettere gli imprenditori, prima ancora che la politica italiana. Gli imprenditori si lamentano, giustamente, se non trovano sul mercato lavoratori con la debita professionalità. Però dovrebbero a loro volta interrogarsi. Perché non riescono a trattenere quelli che hanno maggiori ambizioni? Dipende dal fatto che la professionalità non è giustamente compensata? Atteggiamenti più positivi delle imprese, qualora fossero carenti sul piano individuale, dovrebbero essere promossi dalle organizzazioni datoriali. Sappiamo che ciò è più facile a dirsi che a farsi, ma continuare a non-fare darà esiti peggiori di ogni più timido tentativo di fare.
Un’ultima serie di proposte riguarda la lamentela degli imprenditori sull’adeguatezza delle competenze percepite nei candidati che si presentano per i posti di lavoro offerti. L’inadeguatezza riguarda, in modo particolare, le professionalità tecniche e specialistiche, quelle che dovrebbe formare il sistema scolastico al massimo livello. Dal punto di vista quantitativo, c’è sicuramente bisogno di più ampi contingenti di laureati formati nelle cosiddette STEM, ossia nelle discipline ingegneristiche e tecniche e nelle scienze (matematiche, fisiche, chimiche). L’università ne genera meno di quanti servono e, come abbiamo già detto, sono attratti per primi dalle sirene d’oltralpe. Quindi, c’è un importante problema di orientamento.
Un tentativo strutturale di aumentare il gettito di giovani tecnici è stato fatto istituendo gli ITS – Istituti Tecnici Superiori che, da quest’anno, offriranno corsi di scuola superiore di 4 anni (invece degli attuali 5) più 2 di specializzazione. Prendiamoci qualche anno per capire la validità di questa proposta formativa: il numero di iscritti farà capire se la proposta ha avuto successo. In ogni caso, l’idea di corsi per tecnici di alta qualificazione professionale resta fondamentale per risolvere una buona parte delle carenze evidenziate sul mercato del lavoro.
Infine, è fatale che la formazione scolastica, anche la migliore, richieda un certo tempo per adattarsi alla varietà delle situazioni di lavoro. D’altronde, è inevitabile che i saperi scolastici prima o poi diventino obsoleti. È allora opportuno che formazione e produzione si compenetrino sia prima della consegna del titolo di studio, con stage e seminari applicativi per gli studenti, sia durante la più lunga carriera del lavoratore, con formazione permanente.
Con uno slogan, si potrebbe dire che la scuola deve fabbricare competenza produttiva e non solo conoscenze e cittadinanza e, d’altra parte, che l’impresa deve generare competenze nel continuo e non solo prodotti. Una politica consapevole è quella che premia chi persegue l’uno e l’altro di questi processi virtuosi, finché la compenetrazione tra formazione e produzione diventerà la norma.
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