La difficoltà delle imprese nel reperire i profili professionali idonei a soddisfare i fabbisogni della produzione è destinata a proseguire nei prossimi anni. Questa criticità viene attribuita in particolare a due caratteristiche storiche del nostro mercato del lavoro: il basso livello di investimento sulle competenze delle risorse umane; l’elevata informalità del nostro mercato del lavoro che rende più difficile l’incontro tra la domanda e l’offerta. Due lacune che, secondo gli esperti della materia, dovrebbero essere contrastate con l’ausilio di efficaci politiche attive del lavoro.
Nel breve e medio periodo, per l’intensità dell’impatto delle tecnologie digitali sulle organizzazioni del lavoro e sulle professioni, e per la riduzione demografica del numero delle persone in età di lavoro, è assai probabile che il problema tenda ad aumentare. Fino a costringere molte aziende a rinunciare a espandere le proprie attività e a ridurre il tasso di crescita dell’economia nazionale, Significativo il fatto che persino i bandi per le assunzioni nelle Pubbliche amministrazioni registrino una partecipazione inferiore ai posti di lavoro offerti.
Il basso livello di investimenti sulle risorse umane viene riscontrato nelle percentuali del numero dei laureati e dei diplomati sulla popolazione attiva e nella quantità dei giovani e dei lavoratori che vengono coinvolti a vario titolo nei percorsi di formazione professionale, che rimangono lontane dai livelli medi raggiunti nei Paesi sviluppati. La capacità di intermediare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro da parte dei servizi pubblici e privati è poco significativa, nell’insieme non supera il 9% sul totale delle nuove assunzioni considerando anche i numeri del collocamento obbligatorio.
Sono criticità storiche che ereditiamo dal passato, ma che fino agli anni ’80 dello scorso secolo non avevano generato un impatto negativo apprezzabile nel mercato del lavoro. Per molti aspetti l’aumento dei tassi di scolarizzazione nelle generazioni nate dopo gli anni ’70 si era rivelato persino superiore alla capacità di un assorbimento dei diplomati e dei laureati coerente con i percorsi formativi da parte del sistema delle imprese, per il 90% caratterizzato da quelle con meno di 15 dipendenti, e dalla Pubblica amministrazione. Nel complesso la domanda di laureati e diplomati è rimasta al di sotto di circa 8 punti percentuali rispetto alla media dei Paesi Ocse, generando una notevole frustrazione delle aspettative dei giovani e delle famiglie che hanno investito nella loro formazione.
Le relazioni fiduciarie tra le famiglie, e quelle informali tra le persone, hanno offerto un contributo fondamentale alla formazione dell’imprenditoria diffusa e delle professioni che hanno accompagnato la trasformazione della nostra economia da agricola a industriale e terziaria, nell’ambito di processi di innovazione tecnologia che erano prevedibili e di organizzazioni del lavoro relativamente stabili. Le esperienze lavorative, e la trasmissione dei saperi tra le generazioni, hanno supplito in modo efficace al deficit di investimenti finalizzati alla formazione delle mansioni esecutive qualificate, specializzate e dei quadri intermedi. L’ossatura dei mestieri e delle professioni dei lavoratori dipendenti e autonomi che hanno svolto un ruolo fondamentale per la crescita dell’economia italiana nel secondo dopoguerra.
La sostenibilità di questo modello ha cominciato a mostrare le prime crepe negli anni ’90 in coincidenza della riorganizzazione delle filiere produttive nei mercati internazionali, della terziarizzazione delle attività economiche e del mutamento delle aspettative lavorative delle giovani generazioni. Resa ancor più problematica radicalmente dall’avvento delle tecnologie digitali che hanno incrementato i tassi di mobilità del lavoro e di obsolescenza dei profili professionali.
Nel corso degli anni 2000 si è registrato un costante aumento delle asimmetrie nell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, compensate, per la parte relativa alle basse qualifiche, dalla rapida crescita dei lavoratori immigrati. Le conseguenze negative delle mancate riforme del mercato del lavoro, in particolare quelle rivolte a integrare i percorsi formativi con quelli lavorativi, per incrementare i servizi finalizzati a favorire la conciliazione con i carichi familiari e per i sostegni alla natalità, hanno contribuito a deteriorare la qualità della popolazione attiva.
Negli ultimi quindici anni a parità di occupati, poco più di 23 milioni, sono stati persi circa 1,4 milioni di posti di lavoro con qualifiche medie ed elevate, che sono stati compensati dalla crescita dei lavoratori con bassa qualificazione. In parallelo si è ridotta anche la propensione a generare nuove imprese da parte delle giovani generazioni ed è raddoppiato il numero degli under 35 anni di età che non studiano e non lavorano (Neet), che hanno superato la soglia dei 3 milioni nella seconda decade degli anni 2000.
Secondo molti osservatori il mancato salto di qualità è dipeso dalla carenza di risorse finanziarie dedicate alle politiche attive per il lavoro. Ma un’attenta disamina di quelle stanziate nel periodo preso in considerazione, in particolare a partire da 2010, rivela una crescita esponenziale dei finanziamenti statali dedicati ai sostegni al reddito per mancanza di lavoro, anche a seguito di tre riforme del sistema degli ammortizzatori sociali, e della spesa pubblica per gli incentivi destinati alle assunzioni a tempo indeterminato, per un volume aggiuntivo di risorse pubbliche superiore ai 250 miliardi di euro. Nel frattempo risultano costantemente sottoutilizzate, e con scarsi risultati, quelle provenienti dai fondi sociali europei destinate a potenziare il complesso delle politiche attive per il lavoro.
Il tasso di proattività della popolazione lavorativa non si è esaurito, come confermato dalle analisi sull’andamento dei nuovi rapporti di lavoro e delle dimissioni che rivelano un mobilità media annuale di circa 6 milioni di persone fisiche. Ma rimane prevalentemente ancorato ai comportamenti delle generazioni più anziane e degli immigrati. I tempi delle transizioni lavorative si sono allungati con una scarsa possibilità di migliorare la condizione salariale e lavorativa.
Giovanni Cominelli in un recente editoriale (santalessandro.org 10 maggio us) dedicato alla valutazione degli esiti individuali dei percorsi educativi e formativi scolastici afferma: “Ragazzi fragili? Sì, perché la generazione dei genitori cresciuti negli anni ’70, quelli dell’espansione dello Stato sociale, sta fragilizzando i propri figli proiettando su di loro la visione di un mondo fatto di diritti non negoziabili, di doveri dello Stato nei loro confronti, di aspettative indefinitamente crescenti”.
Una lettura politicamente non corretta delle origini culturali delle mancate riforme e del degrado del nostro mercato del lavoro, ma da cui si deve ripartire per rimontare la china. Le opportunità non mancano, sono disponibili risorse finanziarie ingenti per investire sulle competenze delle persone. La diminuzione della popolazione in età di lavoro tenderà ad aumentare in modo spontaneo le opportunità di lavoro e la qualità delle offerte. La massa delle tecnologie disponibili e i campi di applicazione sono infinite. Tali da accrescere la produttività e i salari con trend sconosciuti rispetto al passato. Ma la condizione per ottimizzare l’utilizzo delle risorse e dei talenti continuerà a dipendere dal sistema dei valori che orientano i comportamenti delle persone e dei soggetti collettivi.
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