Il mercato del lavoro italiano (e non solo) nel corso degli ultimi 15 anni ha subito notevoli cambiamenti, molti indotti da fenomeni esterni, altri prodotti da dinamiche interne. Abbiamo assistito a una crisi finanziaria mondiale, poi divenuta crisi del debito pubblico con successivi urti in termini occupazionali; siamo stati poi investiti da una pandemia, che ha impattato il mercato del lavoro facendo esplodere fenomeni forse già presenti, ma latenti, come le c.d. “dimissioni di massa”, figlie di una volontà di cambiare lavoro per migliorare la propria condizione lavorativa non solo dal punto di vista economico, ma anche, se non soprattutto, dal punto di vista di una migliore conciliazione vita-lavoro, prediligendo la valorizzazione del proprio tempo libero.
La pandemia ha anche, nei fatti, sdoganato definitivamente lo smart working, o lavoro agile, regolamentato nel nostro ordinamento già nel 2017, ma fino al 2020 rimasto relegato a un’esperienza di nicchia. Infine, stiamo assistendo negli ultimi mesi a una spirale inflazionistica che mette a repentaglio il potere di acquisto delle retribuzioni.
In tutto questo, il nostro Paese ha visto varate almeno quattro riforme del mercato del lavoro (Fornero, Jobs Act del Governo Renzi, il Decreto dignità del ministro Di Maio e l’ultimo Decreto lavoro del Governo Meloni), oltre ad altri interventi più o meno impattanti approvati nel corso delle diverse legislature: eventi normativi che pongono effetti diretti e indiretti di cambiamento nell’assetto del mercato del lavoro, aumentando o riducendo l’utilizzo di determinate tipologie contrattuali, la durata degli stessi contratti, producendo effetti sulla consistenza dei periodi di disoccupazione, modificando gli ammortizzatori sociali e gli strumenti di sostegno al reddito oltre a introdurre diverse misure di politica attiva del lavoro. In tutto questo stiamo assistendo alle grandi transizioni: digitale e tecnologica, energetica e ambientale, tutte caratterizzate da un forte impatto sul sistema produttivo e pertanto, di riflesso, sulla componente lavorativa.
Insieme a questi aspetti, vi sono altri mutamenti che hanno impattato sui nostri mercati del lavoro, dalle fluttuazioni settoriali che vedono di volta in volta diversi ambiti merceologici avere una richiesta maggiore in termini di forza lavoro; così come la “scoperta” di figure professionali o competenze tecniche che dieci anni fa non esistevano o erano ancora marginali, diventano rilevanti come la robotica, cybersecurity, Intelligenza artificiale, ecc.; oppure ancora, la valorizzazione nel corso degli ultimi anni di quelle definite come soft skills o character skills.
Senza avere in questa sede la necessità di approfondire la portata in termini di analisi e misurazione di questi impatti, ci preme invece esplicitare quanto gli ultimi anni siano stati caratterizzati appunto da cambiamenti, evoluzioni, novità, che hanno profondamente modificato il nostro mercato del lavoro in termini di competenze, incontro domanda e offerta di lavoro, scelte e percorsi professionali, mobilità territoriale, scelte organizzative e produttive aziendali.
In questa situazione caratterizzata da forte imprevedibilità del contesto di riferimento, è possibile individuare degli elementi positivi che permangono nel tempo nonostante la variabilità sommariamente rappresentata sopra? La risposta è sì. C’è un elemento che permane nel tempo, una verità che resta tale all’interno del mercato del lavoro moderno, che crediamo (se ha superato l’esame di questo decennio, non potrà che fare altrettanto in futuro) perdurerà anche nei prossimi anni: il valore nel mercato del lavoro del titolo di studio. A confermare il ruolo del titolo di studio nel facilitare una posizione forte nel mercato del lavoro sono i dati di Istat pubblicati nel Rapporto 2023 sulla situazione del Paese. Nel 2022 il tasso di occupazione dei laureati è di 30 punti superiore a quello di coloro che hanno conseguito al massimo la licenza media (83,4 per cento rispetto a 53,5 per cento) e di 11 punti in confronto a quello dei diplomati (72,4 per cento). Anche i tassi di disoccupazione sono più bassi per i titoli di studio più alti: 3,9 per cento per i laureati, 6,5 per cento per i diplomati e 10,9 per cento i titoli di studio fino alla licenza media. La differenza tra laurea e licenza media è di 7 punti percentuali a favore dei laureati.
Livelli di istruzione più elevati determinano anche vantaggi in termini di reddito, che premiano l’investimento in formazione. In media, nei Paesi Ue27, i lavoratori di età compresa tra 25 e 64 anni con un diploma di istruzione secondaria superiore guadagnano il 42 per cento in più rispetto a quelli con al più la licenza media, e il conseguimento di un titolo terziario porta a raddoppiare il reddito rispetto a quello dei diplomati e quasi a triplicare rispetto agli occupati con un titolo inferiore.
In Italia, il premio dell’istruzione secondaria superiore è più consistente di quello medio europeo (+53 per cento), mentre quello dell’istruzione terziaria è inferiore, pur traducendosi in un reddito pari a 2,5 volte quello dei lavoratori con al più la licenza media. Questo dato conferma che in Italia non c’è solo un problema di bassi salari nelle mansioni inferiori, ma anche un problema di salari adeguati a ripagare gli investimenti formativi nelle mansioni più alte.
Naturalmente stiamo parlando di livelli medi; esistono chiaramente laureati che non hanno un lavoro o che guadagnano poco; il titolo di studio non è un’assicurazione individuale o una garanzia personale di reddito, in un mercato che non misura solo i risultati educativi, anzi che li misura meno di altri mercati del lavoro in Europa e nel mondo, ma l’effetto complessivo medio, tuttavia, premia i titoli di studio più alti.
Nonostante questa evidenza, i livelli medi di istruzione in Italia restano più bassi rispetto all’Europa. Il 63 per cento dei 25-64enni ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,5 per cento della media Ue27. Nella stessa fascia di età, anche la percentuale di chi ha un titolo di studio terziario (20,3 per cento) è più bassa della media europea (34,3 per cento) ed è circa la metà di quella registrata in Francia e Spagna (superiore al 41 per cento in entrambi i Paesi). Aumentare i livelli di scolarizzazione di qualità almeno equivalente al diploma è un obiettivo necessario a sostenere un mercato del lavoro competitivo. Il livello equivalente almeno al diploma consente al lavoratore di intraprendere percorsi autonomi di ulteriore apprendimento e aggiornamento: in altre parole, al di sotto di questo livello ogni aggiornamento imposto da cambiamenti di tecnologici o da ristrutturazioni settoriali risulta difficile se non impossibile.
La positività del titolo di studio è un fattore (evidentemente non l’unico e non in modo uniforme nel corso del tempo) che permane con il passare degli anni, indipendentemente dalle crisi e dai cambiamenti intercorsi. Pertanto il titolo di studio risulta essere un investimento sempre conveniente, che produce effetti positivi a prescindere dai mutamenti che andremo incontro.
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