Il 6 giugno Istat ha aggiornato le prospettive per l’economia italiana nel 2023-2024. Il documento presenta una previsione a medio termine sull’andamento delle principali variabili economiche, includendo fra queste anche il mercato del lavoro.
Le previsioni di Istat sono prudenziali ma positive. Il Pil continuerà a crescere anche nel 2024, forse solo del +1,1%. Quindi, si prevede una crescita anche per le unità di lavoro (Ula) dell’1,2% nel 2023 e dell’1% nel 2024. Le Ula indicano il volume di lavoro utilizzato equivalente al tempo pieno (per capirci: due contratti part-time al 50% sono conteggiati come un contratto a tempo pieno). Naturalmente la crescita prevista, anche se in rallentamento, dovrebbe spingere verso il basso il tasso di disoccupazione: 7,9% per il 2023 e 7,7% per il 2024.
Anche se il tasso di posti vacanti segnalati dalle imprese è sceso al 2%, la tensione sul mercato del lavoro sembra destinata a mantenersi alta. Istat ricorda che il 55% dei lavoratori dipendenti è in attesa dei rinnovi dei contratti collettivi di lavoro, e prevede che le variazioni delle retribuzioni per unità di lavoro potrebbero segnare aumenti del 3,5% nel 2023 e del 2,7% nel 2024.
Tutto bene quindi? Non tanto, l’inflazione potrebbe ridurre i miglioramenti salariali reali. Per l’inflazione Istat delinea un quadro di generale riduzione, anche se le condizioni che si devono avverare contemporaneamente sono molte: normalizzazione dei prezzi delle materie prime agricole e del gas naturale, stabilizzazione delle quotazioni del petrolio, stabilizzazione dei tassi di cambio. Insomma, se tutto va bene l’indice usato per stimare l’inflazione (il deflatore della spesa delle famiglie) dovrebbe passare al 5,3% nel 2023 e al 2,6% nel 2024. Quindi, salari reali ancora in calo nel 2023 e stabilizzazione della caduta del potere d’acquisto delle famiglie nel 2024 (sempre se tutto va bene).
L’attuale fase di sviluppo è stata sostenuta anche dalla crescita dei consumi interni, e il rilancio economico ha ridato spinta alla mobilità del lavoro (il grande turnover). Il modello con cui Istat stima la previsione del mercato del lavoro tiene giustamente conto dell’evoluzione demografica, dell’evoluzione della produttività e dell’evoluzione dei salari reali. Salari reali in ribasso e riduzione demografica spingono a una crescita occupazionale relativa che può anche avvenire in una fase di investimenti in riduzione.
Certamente ci sono aspettative sul ruolo del Pnrr nel favorire un nuovo ciclo di crescita di investimenti e consumi per il 2024, ma resta vero che il panorama economico internazionale, la crescita dei tassi, i conflitti in corso e l’instabilità negli ultimi anni ci hanno abituato a brutte e frequenti sorprese.
I dati di maggio sul mercato del lavoro negli Stati Uniti, ad esempio, hanno visto una forte e inattesa crescita dei contratti di lavoro, ponendo al centro del dibattito la necessità di procedere a un ulteriore rialzo dei tassi di interesse per ridurre l’inflazione. Nel Regno Unito, anche se il mercato del lavoro è in rallentamento, i salari medi offerti sono in crescita del 7%, con un timore crescente di spinte inflattive. In Europa il tasso medio di inflazione a maggio era al 6,1%, in calo rispetto al 7% del mese precedente, ma non ci sono chiari segnali di ulteriori cali; la Bce potrebbe quindi procedere con nuovi rialzi dei tassi.
Insomma, la partita contro l’inflazione non sembra essere così pacificamente conclusa e gli impatti sul mercato del lavoro dei fondamentali economici e demografici di lungo periodo dovrebbero spingere l’Italia a una revisione sostanziale delle politiche. Resta urgente favorire una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, che inneschi un nuovo ciclo lungo di crescita nel settore dei servizi e della tecnologia. I forse necessari ritocchi a flessibilità e sussidi potrebbero non bastare.
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