La precarietà aumenta da 20 anni, con i governi di ogni colore. Visto che la politica non modifica le leggi bisogna ragionare di uno strumento referendario, chiedere ai cittadini di intervenire per farle cambiare”. È l’ukase di Maurizio Landini – ripetendo il quale a testa bassa – intende ripetere il “successo” di Susanna Camusso, quando costrinse il Governo Gentiloni ad abrogare l’uso dei voucher per evitare che il Paese fosse chiamato ad esprimersi in una consultazione referendaria promossa dalla Cgil. Landini ha un progetto più ambizioso: demolire il Jobs Act. Non tanto per i suoi contenuti, poiché del contratto a tutele crescenti è rimasto ben poco, dopo la cura della Consulta. No. L’obiettivo è quello di sconfessare l’azione di una sinistra di governo, ripudiata dal nuovo corso che attribuisce alle “deviazioni riformiste” il ridimensionamento della sua presenza nel mondo del lavoro.
Alle minacce di Landini si associa la Uil di Pierpaolo Bombardieri, il quale se la prende in particolare con i contratti a termine, dimenticando che trascorsi i 12 mesi di “franchigia” le possibilità di proroga sono affidate alle causalità previste nei contratti nazionali e comunque all’esistenza di motivi connessi alle esigenze produttive, organizzative e sostitutive delle aziende. Questa norma di chiusura viene chiamata il “causalone”, che rende comunque accertabili in giudizio l’effettività di queste esigenze. Bombardieri arriva persino a imbrogliare i dati quando in conferenza stampa ha affermato che dal 2019 al 2022 i contratti a tempo indeterminato attivati sono stati 1,8 milioni, a fronte di 8,5 milioni di quelli a tempo determinato. Si confondono, così, i numeri delle nuove assunzioni con quelli provenienti dalle comunicazioni obbligatorie, perché nel caso del lavoro a termine il numero dei contratti non corrisponde a quello dei lavoratori, dal momento che è nella ratio di questa tipologia contrattuale l’essere ripetuti, nell’arco di tempo considerato, sulle medesime persone.
Ma ciò che continua a stupire è la pervicacia con cui Landini e il suo “compagno di merende” si ostinano a ignorare i nuovi trend del mercato del lavoro che evidenziamo, prima di ogni altra criticità, una crisi dal lato dell’offerta. I dati vengono ignorati, quasi considerati con fastidio perché, se presi sul serio pur con tutti i loro limiti e squilibri, potrebbero mettere in discussione quella narrazione di una società che esiste solo nella propaganda di quelle organizzazioni sindacali (Cgil e Uil) che fanno causa comune sul terreno dell’agitazionismo, mentre la Cisl cerca di portare avanti un progetto di partecipazione dei lavoratori. È chiaro che le due visioni, quella conflittuale e quella partecipativa, sottendono analisi radicalmente diverse relativamente allo standard e alla qualità delle relazioni industriali. Che dire allora di quanto documentato nel XXII Rapporto dell’Inps con riguardo rispettivamente al lavoro dipendente, al lavoro autonomo e agli strumenti di tutela economica della disoccupazione?
Il lavoro dipendente in Italia vent’anni fa rappresentava circa il 72% dell’occupazione, oggi il 78%. Si tratta, secondo l’Inps, di una continua crescita che non si è arrestata neppure a causa della pandemia, grazie anche alla notevole tutela normativa predisposta dai Governi. L’andamento, negli anni oggetto di analisi, è dipeso soprattutto dal settore privato a tempo indeterminato. L’incidenza del part-time in Italia sull’occupazione complessiva (dipendenti privati, dipendenti pubblici, autonomi) secondo l’Istat è attorno al 18%, in linea con la media Ue-27. Il Paese europeo con il valore massimo di part time è l’Olanda (oltre il 40%), mentre all’opposto Bulgaria, Romania, Slovacchia, Ungheria e altri sono addirittura distanti dalla doppia cifra. Anche la differenziazione per genere in Italia è in linea con la media europea: tra gli uomini la quota di part-time è circa l’8%, mentre supera il 30% tra le donne. Sui dati amministrativi medi del 2022, il part-time è stato pari al 7% tra i dipendenti pubblici a tempo indeterminato, al 26% tra i dipendenti privati a tempo indeterminato, al 45% tra i dipendenti privati a tempo determinato.
Di questi dati si dovrebbe tener conto quando si ragiona di salario minimo legale. Infatti, connesso al tema del tempo di lavoro è un approfondimento sui salari, che non hanno tenuto compiutamente il passo dell’inflazione, e in particolare sulle definizione e analisi dei working poors, definiti come i lavoratori con retribuzione inferiore al 60% del valore mediano. In merito ai livelli e distribuzione delle retribuzioni sono inoltre riferiti ai Contratti collettivi nazionali del lavoro (Ccnl): nel mese di ottobre 2022 i dipendenti privati erano 13,8 milioni distribuiti tra oltre 800 Ccnl. Di questi, quelli riguardanti oltre 100 mila lavoratori erano 28 e rappresentavano circa il 78% dei dipendenti. L’incidenza di persone con una retribuzione giornaliera inferiore al 60% della mediana risultava pari al 6,3%, come sintesi del 13,6% tra i part time e del 3,6% tra i full time. In particolare, per il lavoro domestico, si dà conto della crescita registrata fino al 2021 (455 mila badanti, 516 mila colf) collegandola agli effetti prodotti dalla regolarizzazione “implicita” dovuta al lockdown e dalla regolarizzazione esplicita introdotta dal Decreto Rilancio del 2020. La flessione del 2022 (-7,9% rispetto all’anno precedente) può essere letta come diminuzione fisiologica post-regolarizzazione. Sempre nel caso del lavoro dipendente, l’Inps conferma che nel post-pandemia non c’è stata alcuna significativa ondata di licenziamenti: lo stock mensile dei beneficiari di Naspi del 2022 (sia totale, sia la quota proveniente da tempo indeterminato) è risultata sistematicamente sotto i livelli del 2019.
Il lavoro autonomo “classico” manifesta da anni un trend decrescente. I numeri degli artigiani, commercianti e lavoratori autonomi agricoli diminuiscono ogni anno, però con una netta distinzione tra nati in Italia (in declino) e nati all’estero (in aumento). La componente straniera è quindi in controtendenza rispetto a quella italiana. In continuo aumento è il numero di iscritti contribuenti alla Gestione Separata: amministratori (il gruppo più numeroso, 600 mila nel 2022), collaboratori, medici specializzandi, venditori a domicilio, ecc. Tra di essi, soprattutto i professionisti (senza cassa ordinistica) registrano numeri davvero importanti: erano meno di 200mila fino al 2004, hanno raggiunto quota 300mila nel 2013, sono oltre 400 mila dal 2019, plausibilmente a breve saranno mezzo milione. Sempre per quanto concerne il lavoro autonomo, il rapporto dà conto – oltre che delle evidenze numeriche della Dis-Coll, strumento oramai consolidato – delle prime statistiche sui recenti provvedimenti di tutela dei professionisti della Gestione Separata (Iscro) e dell’indennità di disoccupazione per i lavoratori autonomi dello spettacolo (Alas), il cui impatto risulta assai modesto.
Quanto al lavoro accessorio (voucher) e occasionale (CPO e titoli del Libretto Famiglia), gli strumenti di tutela economica della disoccupazione hanno visto – sostiene l’Inps – la progressiva espansione del quadro di applicazione dal lavoro dipendente a segmenti del lavoro autonomo.
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