Istat ha pubblicato ieri i dati relativi all’occupazione in Italia a dicembre 2022. La rilevazione mensile offre l’occasione per guardare ai risultati del mercato del lavoro per tutto il 2022, un anno difficile per la guerra, le tensioni sui mercati internazionali dell’energia e la crescita dell’inflazione.
Guardando i dati fondamentali (destagionalizzati), le notizie sono positive: rispetto a dicembre 2021 gli occupati sono cresciuti dell’1,5%, i disoccupati sono in calo (-11%) e sono in calo anche gli inattivi (-1,7%). In valori assoluti si tratta di 334 mila occupati in più in dodici mesi, con una crescita che ha riguardato sia i dipendenti permanenti (+270 mila) che quelli indipendenti (+95 mila), mentre calano i contratti a termine (-30 mila).
Vale la pena di sottolineare questo punto: a dicembre in Italia su 18 milioni e 189 mila dipendenti, i contratti a tempo indeterminato erano 15 milioni e 151 mila, vale a dire più dell’83%. Questo dato non significa che non c’è più variabilita’ contrattuale o precarietà (comunque ci sono poco più di 3 milioni di dipendenti a termine), ma che i dati, anche recenti, sulle cosiddette “grandi dimissioni” vanno letti con maggiore attenzione. I passaggi da un contratto a tempo indeterminato a un altro contratto a tempo indeterminato, o comunque a una forma di lavoro con salari più alti, in posizioni temporanee e autonome, sono più frequenti di quanto non si pensi. Sicuramente fanno meno notizia delle storie di precariato e di lavoro sottopagato che non mancano mai, e che raggiungono gli onori della cronaca sotto la forma di casi personali o di indagini della magistratura su situazioni di possibile sfruttamento.
Gran parte della movimentazione del mercato del lavoro all’uscita dai blocchi generati dalla pandemia ha consentito nuovi posizionamenti dei lavoratori con maggiori competenze, spinti da un’inflazione che erode il potere d’acquisto, ma soprattutto hanno consentito ai datori di lavoro di posizionarsi e stabilizzare le competenze chiave. Questa stabilizzazione dipende da due fattori:
– la crescita del Pil nel 2022 che, stando alla stima preliminare pubblicata nello stesso giorno dei dati sul lavoro, segna un aumento del 3,9%. Anche se il quarto trimestre è stimato in calo dello 0,1%, si tratta di una previsione migliore del previsto, con un contributo negativo della domanda nazionale (al lordo delle scorte) e uno positivo della componente estera netta. Complessivamente l’eurozona ha fatto segnare una crescita dello 0,1% nel quarto trimestre, rimandando al futuro le previsioni di un’eventuale recessione.
– la restrizione demografica del mercato che viene segnalata anche dalla rilevazione sul mercato del lavoro. Se si osservano i dati della classe di età 35-49 anni, si nota la diminuzione del numero degli occupati, che dipende dal calo della popolazione in questa fascia di età. Dato che il numero degli occupati cala meno della popolazione, il tasso di occupazione cresce. Si tratta di una classe centrale nella struttura occupazionale del Paese, e sta per risentire della diminuzione che negli ultimi venti anni ha riguardato la classe di popolazione precedente, quella fra i 20 e i 35 anni. È naturale che molti datori di lavoro comincino a valutare con preoccupazione la restrizione di questa parte del mercato del lavoro.
Dal punto di vista del genere, a dicembre 2022 rispetto al mese precedente, sia per gli uomini che per le donne, il tasso di occupazione è in crescita di 0,1 punti e quello di disoccupazione è stabile; l’inattività cala di -0,2 e -0,1 punti rispettivamente. Su base annua, uomini e donne mostrano una crescita dell’occupazione (+1,6 punti per gli uomini e +0,5 per le donne) e un calo della disoccupazione (-1,3 e -0,6 punti) e dell’inattività (-0,7 e -0,2 punti). Complessivamente il tasso di disoccupazione si stabilizza al 7,8%.
Per quanto riguarda l’andamento dei salari, Istat ha pubblicato anche le informazioni sulle retribuzioni contrattuali. L’indice mensile ha visto a dicembre 2022 un aumento rispetto al 2021 dell’1,5% per i dipendenti dell’industria, dello 0,6% per quelli dei servizi privati e del 2,8% per la Pubblica amministrazione. Il 2022 è stato un anno intenso dal punto di vista contrattuale con 33 contratti collettivi recepiti. La notizia è positiva, ma il divario fra inflazione e retribuzioni è salito al 7,6%.
Nessuna meraviglia, quindi, che la domanda interna abbia penalizzato la crescita del Pil nel quarto trimestre, e ancor meno meraviglia per l’elevato tasso di migrazione da una posizione lavorativa all’altra degli ultimi mesi. D’altra parte, l’incidenza percentuale del monte retributivo dei dipendenti con contratto in vigore è pari al 67,7% nel settore privato. Questo significa che per due terzi dei lavoratori il recupero dell’inflazione può avvenire solo con la contrattazione aziendale o individuale, ovvero cambiando lavoro. I contratti vigenti prevedono incrementi salariali dell’1,9% per il 2023: non ci sono certo segnali di una spirale prezzi-salari, ma senza riduzioni sostanziali dell’inflazione è prevedibile che la spinta a cambiare lavoro resti alta anche per i prossimi mesi.
Segnaliamo che il settore dei servizi privati ha una copertura dei contratti rinnovati del 38,1%, contro il 100% di agricoltura a industria. È quindi nel settore dei servizi che si sta caricando la molla della tensione contrattuale e dove potenzialmente l’erosione del potere d’acquisto potrebbe essere più rilevante.
Insomma, buone notizie, ma attenzione a demografia e salari, senza cambi di direzione nelle politiche del lavoro le tensioni sul mercato crescono.
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