Con la pubblicazione dei dati del IV trimestre, Istat ci consente di fare il punto sul mercato del lavoro nel 2023 con un maggior numero di informazioni rispetto alle uscite provvisorie mensili.

Rispetto al IV trimestre 2022 sono molti i segni più: gli occupati sono cresciuti del 2,3%. Si tratta di 533 mila occupati in un anno, la stragrande maggioranza dei quali (492 mila) dipendenti a tempo indeterminato e a tempo pieno. Sono calati di converso i disoccupati (-65 mila) e le persone inattive in età da lavoro (-496 mila).



Se guardiamo la distribuzione della popolazione nel quarto trimestre 2023 vediamo che gli occupati in Italia sono 23 milioni e 810 mila, uno dei numeri più alti di sempre, ma se li rapportiamo alla popolazione totale sono circa il 40,7%. Ogni 10 persone che vivono in Italia, 4 lavorano e 6 no. Se togliamo pensionati e giovani e ci limitiamo a quelli in età da lavoro, ci sono più di 12 milioni di persone che non lavorano, vale a dire il 20% circa del totale della popolazione.



Quindi, volendo, il numero delle persone che lavora può crescere, anche se ci sono meno giovani: si potrebbe far lavorare alcuni di questi 12 milioni di persone, e magari sentire meno datori di lavoro che si lamentano (per sentirne meno lamentele basterebbe anche alzare i salari…).

Istat ci divide gli inattivi per condizione: tolti i pensionati e quelli che studiano, tolti anche quelli che stanno aspettando una risposta a una selezione o un concorso e quelli hanno altri problemi, ad esempio di salute, restano due grandi gruppi: gli scoraggiati, poco meno di un milione, e quelli con problemi di famiglia, che sono 2.713 mila, quasi tutte donne (2 milioni e 600 mila).



Gli scoraggiati ci hanno provato a cercare un lavoro, ma troppe delusioni li hanno resi inattivi. Le donne che hanno carichi di famiglia potrebbero lavorare se avessero servizi disponibili che costino meno del loro salario. Ora non c’è nessun automatismo, ma una domanda su quali politiche del lavoro fare e cos’è una politica del lavoro oggi bisognerebbe farsela, invece di continuare a produrre a nastro le politiche pensate 20 anni fa per condizioni di mercato e demografiche molto diverse.

Per fare salire i tassi di occupazione in maniera sensibile occorre non solo una politica del lavoro più efficace (che si ripaga riducendo le spese in sussidi, in pensioni sociali, in mancate tasse pagate per evasione, in riduzione dei costi di assistenza sociale e sanitaria, e l’elenco non è esaustivo), ma serve anche una condizione dei servizi che consenta la libera scelta fra stare a casa a badare ad anziani e bambini o andare a lavorare o fare in parte l’una o in parte l’altra cosa. E mettiamoci fra questi servizi anche l’educazione e la formazione: i senza titolo di studio hanno un tasso di occupazione del 45%, i laureati dell’82%. L’ignoranza non paga. I tassi di occupazione al nord sono prossimi al 70%, al sud sono sotto al 50%, i cittadini stranieri sono al 62,8% e gli italiani al 62%, anche se le donne italiane hanno tassi di occupazione maggiori rispetto alle donne straniere in Italia.

Le disparità e la mancata possibilità di scegliere per una bella fetta di popolazione non è il solo motivo di preoccupazione. Istat segnala che il costo del lavoro è cresciuto del 3,4% in un anno, e solo del 3,3% per la parte retributiva (il resto sono oneri sociali cresciuti del 3,6%). Si tratta di un tasso medio di crescita che resta sotto la crescita dei prezzi; anche ora che l’inflazione rallenta i prezzi continuano a salire e il potere d’acquisto perso nel passato non si sta recuperando. Gli impatti negativi sui consumi si sentono e a loro volta impattano sul lavoro stesso. La cassa integrazione a fine anno sta salendo, sale piano ma sale. È l’industria a sentire il peso maggiore della condizione internazionale e nazionale, compensata in parte dalla crescita dei servizi. E notiamo che la crescita delle ore lavorate nel trimestre è stata dello 0,8%, mentre il Pil è cresciuto dello 0,2%; tradotto vuol dire che è cresciuto il lavoro a più bassa produttività.

Dunque riepiloghiamo: più persone trovano lavoro, anche più stabile, a fronte di salari reali più bassi e lavori meno produttivi. Si può spingere su questo modello di crescita per molto tempo ancora, ma non all’infinito.

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