L’Italia è il Paese delle convergenze parallele. L’ossimoro fu coniato da Aldo Moro per spiegare la politica della solidarietà nazionale; ma vale anche se si affrontano i problemi del mercato del lavoro. In verità alcune cose sono cambiate, nel senso che l’occupazione continua a crescere e aumenta il lavoro a tempo indeterminato; la manodopera pregiata per capacità professionale ed esperienza “ha licenziato il padrone” (come direbbe Marco Bentivogli) ed è andata a cercarsene uno migliore sul versante della retribuzione e delle condizioni di lavoro.



Il mismatch sta divenendo una delle maggiori criticità del mercato del lavoro ed è assurto a un limite agli investimenti in nuove tecnologie, perché le imprese non si avventurano in processi di riorganizzazione che richiedono lunghi ammortamenti dei capitali impiegati se non trovano il personale che possa gestirli. Eppure siamo lontani dalla piena occupazione; addirittura nonostante la sequela dei record a cui siamo assistendo non ci consentono di risalire la classifica in Europa, anzi stiamo rischiando di essere superati dalla Grecia. Poi le statistiche ci confermano a ogni rilevazione (il numero dei posti vacanti, per esempio, è raddoppiato) che vi sono tanti uomini e soprattutto donne che cercano un lavoro e non lo trovano, mentre molte aziende magari nel medesimo comprensorio che non trovano persone da assumere. È evidente che chi dirige il traffico in entrata e in uscita non è all’altezza del suo compito.



Si chiamano attive le politiche che promuovono il lavoro, mentre si definisco passive quelle che tutelano il reddito sia in costanza di rapporto del lavoro (tipico è il caso delle varie ipotesi di cassa integrazione guadagni) o dopo la sua cessazione (si veda la Naspi e quant’altro). Va da sé che le politiche passive dovrebbero fare da battistrada a quelle attive, nel senso di accompagnare una persona che ha perso il lavoro a trovarne un altro mettendo in campo tutti gli strumenti di riqualificazione e formazione necessari con un occhio attento a monitorare le esigenze del mercato del lavoro.



In Italia questa sinergia non funziona: gli ammortizzatori sociali vanno per la loro strada ad esaurimento, spesso si trova il modo di prolungarne l’intervento dopo la scadenza prevista; le politiche attive latitano, salvo casi di nicchia molto limitati. Ovviamente c’è un problema di allocazione delle risorse disponibili. In Italia spendiamo meno che negli altri Paesi industrializzati. La spesa per le politiche per il mercato del lavoro nei Paesi Oce ammontava nel 2019 – gli ultimi dati disponibili – a circa l’1,28% del Pil dei Paesi membri. Tale spesa era divisa – com’è riportato nel Rapporto Inapp 2022 pubblicato di recente – in maniera quasi perfetta fra politiche di tipo attivo e politiche di tipo passivo (0,65% contro 0,63% del Pil). Dopo un periodo di riduzione del peso sia delle politiche passive che delle attive dal 2010 al 2018, in ambito OCce le prime sono cresciute nel 2019 dallo 0,48% fino al sopra menzionato 0,63%.

Nei i più importanti Paesi dell’Europa occidentale il peso delle politiche attive sul Pil sembra essere più stabile rispetto a quello delle politiche passive, sia nel complesso dei Paesi Ocse che in Spagna e Germania, mentre in Italia e Francia sembra essere più stabile l’incidenza di quelle passive. In teoria l’andamento generalmente meno variabile delle politiche attive potrebbe essere spiegato piuttosto agevolmente dalle caratteristiche più strutturali (e quindi meno soggette alle variazioni di breve periodo) che dovrebbero avere le prime, ma questo non avviene nel nostro Paese e in quello transalpino. In Spagna le politiche passive si sono dimezzate dal 3,08% del Pil nel 2010 all’1,45% del 2018 con una leggerissima crescita nel 2019 (1,52%, valore esattamente uguale a quello del 2017). Le politiche attive invece sono passate dallo 0,92% del 2010 allo 0,52% del 2013, per salire poi di nuovo attorno allo 0,70% fra il 2017 e il 2019. Negli altri Paesi considerati si registra una riduzione sia di quelle passive che di quelle attive, seppure la prima appare più contenuta della seconda.

In Italia le politiche passive sono passate dall’1,31% del Pil del 2010 all’1,14% del 2018 per poi risalire ancora (1,29%) nel 2019 (è quasi il doppio della media Ocse). Le politiche attive invece hanno raggiunto un massimo dello 0,49% del Pil nel 2015 ma nel 2019 la loro incidenza si era ridotta allo 0,27% (circa la metà della media Ocse). In Francia l’andamento è risultato simile a quello italiano sebbene partendo da percentuali superiori. Nel Paese transalpino l’incidenza delle politiche passive era stata superiore al 2% del Pil fra il 2013 e il 2016, mentre si è ridotta di nuovo nel 2019 raggiungendo un minimo di 1,87 punti di Pil. Per quanto riguarda le politiche attive, la loro incidenza si è abbassata senza soluzione di continuità dall’1,07% del Pil nel 2010 allo 0,71% nel 2019.

Anche in Germania l’andamento è risultato simile ma con valori ridotti, specie per le politiche passive. Queste passano dall’1,29% del 2010 allo 0,72% del Pil del 2019, mentre quelle attive dallo 0,90% allo 0,60%. In Francia le politiche passive sono andate aumentando dai 38 miliardi del 2010 ai 44-45 miliardi già a partire dal 2013. Sempre in Francia, la spesa per quelle attive si è ridotta dai 18,2 miliardi del 2016 agli 11,7 del 2019, valore rimasto sostanzialmente invariato nel 2020.

L’Italia e la Spagna spendono molto meno: in genere fra i 20 e 25 miliardi per le politiche passive (tranne, ovviamente, il 2020). Da notare come in Spagna le politiche attive crescano anche nell’anno della pandemia dopo che avevano raggiunto un minimo di 4,3 miliardi di euro nel 2013, ovvero nel periodo della crisi dell’eurozona meridionale. Anche in Italia e in Germania la spesa per politiche attive resta pressoché stabile fra 2019 e 2020, mentre le politiche passive registrano un incremento.

Mentre le Agenzie del lavoro private si dedicano soprattutto al lavoro somministrato, un ruolo importante è affidato in Italia ai Centri per l’impiego (Cpi). E siamo effettivamente sottodimensionati rispetto agli altri Paesi. Al 31 dicembre 2019 gli impiegati nei Centri per l’impiego in Italia erano pari a 7.772 unità, con una riduzione di 162 unità rispetto al 31 dicembre 2016. La regione che presenta il maggior numero di operatori per milione d’abitanti e totali è la Sicilia con 1.741 operatori (poco più di 360 per milione di abitanti). A essa fa seguito la Sardegna (quasi 316 operatori ogni milione di abitanti per un totale di 502 unità). Il che – lo diciamo senza malizia – dimostra che in questa attività più che i numeri degli addetti contano altri aspetti. Vengono poi due regioni di dimensioni demografiche più ridotte: la Valle d’Aosta (35 unità che però corrispondono a 282 dipendenti dei Centri per l’impiego ogni milione d’abitanti) e l’Umbria (177 totali per 204,5 operatori ogni milione d’abitanti).

Altre regioni popolose del Meridione, come la Campania e la Puglia, presentano un numero di operatori assoluto e relativo inferiore a quelli del Lazio (in quest’ultimo risultavano dipendenti dei Cpi 676 impiegati, pari a 118 unità ogni milione d’abitanti). Le altre grandi regioni del Nord presentavano un numero di dipendenti assoluto pari a 774 in Lombardia (77,5 ogni milione d’abitanti), 457 in Emilia-Romagna (103 ogni milione d’abitanti), 384 in Piemonte (poco meno di 90 ogni milione di residenti), 345 in Veneto (quasi 71 ogni milione di abitanti). I valori relativi di Campania e Puglia sono del tutto simili a quelli del Piemonte (e quindi attorno ai 90-91 dipendenti ogni milione d’abitanti) e dunque inferiori anche a quelli dell’Emilia-Romagna. In definitiva, solo in Sicilia e Sardegna i Centri per l’impiego non appaiono sottodimensionati nei territori che presentano maggiori difficoltà in termini d’occupazione.

L’Inapp, poi, non molla la presa e sottolinea che quando si vanno a verificare però le funzionalità per addetto si notano alcuni elementi interessanti. Anzitutto la non sorprendente proporzionalità inversa fra numero di prese in carico per addetto e il numero di addetti nei Cpi nelle regioni italiane. Nel 2019, In Sicilia sono presenti poco più di 27 addetti per Cpi a fronte di quasi 157 prese in carico per addetto. In Campania erano stati assunti meno della metà degli addetti (11 per Cpi) cui erano in capo più di 540 prese in carico. Analoghi risultati si registrano in Puglia. In secondo luogo, nessuna regione si trova consistentemente al di sopra della media italiana (quasi 248 prese in carico per addetto a fronte di 14 dipendenti per singolo Cpi) in ambedue le dimensioni contemporaneamente. In terzo luogo, i Cpi sembrano acquisire maggiori prese in carico anche in Veneto, Piemonte, Toscana e regioni minori del Mezzogiorno, mentre il ruolo non sembra essere estremamente efficace non solo nelle regioni del Nord dove si ha meno necessità di ricerca (Lombardia ed Emilia-Romagna), ma anche nel Lazio e in Sardegna a fronte di un numero medio di addetti sopra la media italiana.

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