Nel mercato del lavoro l’incontro tra la domanda e l’offerta non è solo un modo per soddisfare i fabbisogni della produzione e di facilitare l’inserimento delle persone che cercano un lavoro. È il risultato di un sistema di relazioni e di interventi messi in atto da una molteplicità di attori: persone, famiglie, imprese, enti di formazione, servizi di orientamento, rappresentanze sociali e istituzioni pubbliche, che consente loro di interagire con la complessità e la rapidità dei cambiamenti delle organizzazioni del lavoro. Il buon funzionamento del mercato del lavoro dipende in primo luogo dalla capacità di questi protagonisti di condividere obiettivi, valori e comportamenti in relazione alle specifiche dinamiche del contesto storico.
La qualità degli esiti desiderati, in particolare la crescita del tasso di occupazione delle persone in età di lavoro e la remunerazione equa delle prestazioni lavorative, costituiscono la premessa fondamentale per il buon funzionamento della distribuzione della ricchezza generata e per garantire la sostenibilità delle prestazioni sociali. Sono affermazioni talmente ovvie da apparire persino banali. Ma se osserviamo attentamente la qualità del dibattito italiano sulla materia, in particolare la perenne evocazione dell’intervento dello Stato per risarcire le persone che non lavorano, ovvero per trovare un lavoro ai disoccupati aumentando il numero dei funzionari dei servizi pubblici per l’impiego, la condivisione di queste premesse appare tutt’altro che scontata.
Nel corso degli anni duemila le dinamiche dell’occupazione e delle retribuzioni risultano di segno negativo rispetto alla media dei Paesi dell’Ocse. La narrazione prevalente individua le cause nella strategia delle imprese, rivolte a sfruttare i vantaggi competitivi sul costo del lavoro offerti dall’apertura dei mercati internazionali, e la deregulation normativa dei rapporti di lavoro, operata dai Governi nazionali, nel caso italiano con l’approvazione della legge Biagi del 2022 e della riforma nota come jobs act proposta dal Governo Renzi nel 2014. Le statistiche dell’Eurostat che analizzano in modo comparato le caratteristiche dei mercati del lavoro dei Paesi della Ue smentiscono questa narrazione.
I numeri mettono in evidenza che i punti di forza del nostro mercato del lavoro e delle retribuzioni vengono riscontrati nei settori economici che competono sui mercati internazionali. All’opposto i divari occupazionali negativi, a parità di popolazione, risultano essenzialmente concentrati nei servizi rivolti al mercato interno (3,5 milioni di occupati in meno e tra questi 2 milioni nella sanità, l’assistenza e l’istruzione). Nel dibattito italiano il tema della precarietà del mercato del lavoro italiano è sempre stato identificato con la quantità dei lavoratori a termine, mentre la bassa crescita del tasso di occupazione, obiettivo primario della strategia europea, è sempre passato in sordina. Analisi diverse, legata anche alla natura degli approcci ideologici, che hanno condizionato la qualità delle politiche del lavoro.
Nel corso degli anni duemila si sono verificati tre cicli di crescita dell’occupazione (2002-2008; 2014-2018; 2022-2023) alternati da due recessioni economiche particolarmente dolorose (2009-2013; 2020-2021). Nei sei anni che precedono la crisi del 2009, coincidenti con l’attuazione della legge Biagi, sono stati generati poco meno di un milione di posti di lavoro, tra i quali circa 800mila a tempo indeterminato. La legge in questione venne accusata, in modo del tutto ingiustificato, di destrutturare i rapporti di lavoro stabili e di moltiplicare quelli a termine, penalizzando le giovani generazioni (in questi anni il tasso di occupazione dei giovani under 35 rimane stabile al 70%, ndr). Un contributo importante alla crescita dell’occupazione nella prima decade degli anni duemila è stato offerto dai lavoratori immigrati.
La legge Biagi verrà progressivamente smantellata negli anni successivi con l’azzeramento sostanziale di alcune tipologie di rapporto di lavoro (contratti a progetto, voucher in primis) e vanificata per la parte del potenziamento dei percorsi di alternanza tra scuola e lavoro. Il secondo ciclo espansivo coincide con l’approvazione del Jobs act nel periodo del governo Renzi. Nei cinque anni che precedono l’avvento della pandemia i numeri occupazionali tornano sui livelli del 2008, ivi compresi i rapporti a tempo indeterminato, e registrano una crescita di quelli a termine, poco più di 800mila, crescita che ha compensato la riduzione del numero dei lavoratori autonomi. La crescita dei rapporti a tempo determinato, e a part time, è da collegare alle caratteristiche dei settori, in particolare del turismo e della ristorazione, che hanno contribuito ad aumentare l’occupazione compensando la consistente perdita dei posti nelle costruzioni. La crescita dei contratti a termine è continuata nonostante l’approvazione nel 2018 del decreto dignità che limita l’utilizzo di questi rapporti.
Nel lasso di tempo che intercorre tra le due grandi crisi economiche, il tasso di occupazione dei giovani under 35 anni è precipitato al 62,9%. Con un peggioramento significativo dei tempi di inserimento post-scolastico nel mercato del lavoro, caso unico in Europa. L’ultimo ciclo espansivo è tutt’ora in corso. Smentendo ogni previsione catastrofica legata ai licenziamenti per l’uscita dal blocco disposto durante i due anni della pandemia, l’occupazione è aumentata di 550mila unità rispetto al 31 dicembre 2019, e di oltre 700mila per la quota dei rapporti a tempo indeterminato. La motivazione del trend positivo riconduce a due fattori problematici: la difficoltà di reperire risorse umane coerenti con i fabbisogni, che sta portando le imprese a utilizzare al meglio i lavoratori disponibili; la costante riduzione demografica della popolazione in età di lavoro. Dinamiche destinate a rimanere costanti nei prossimi anni, e che hanno favorito una significativa ripresa, circa 4 punti, dei tassi di occupazione delle donne e dei giovani under 35 anni. Ma nonostante queste evidenze, e il rischio palese di registrare una carenza cronica di risorse umane funzionali a reggere la difficile transizione economica che ci attende, la narrazione del nostro mercato del lavoro rimane immancabilmente la stessa. Quella di ridurre drasticamente l’utilizzo dei contratti a termine (il segretario della Cgil Landini propone un referendum per tale scopo) e di aumentare i sostegni ai redditi da mettere a carico dello Stato.
Fatta questa lunga disquisizione sui mega-trend del nostro mercato del lavoro e sulla sovrastrutturalità delle nostre politiche del lavoro (che ci sono costate nella seconda decade degli anni duemila qualche centinaio di miliardi di euro tra risorse dedicate, sostegni al reddito di varia natura, incentivi per le assunzioni, formazione e servizi per il lavoro) non ci resta che tornare a quanto affermato nell’introduzione. Senza una lettura corretta dei principali trend del mercato del lavoro e di una condivisione dei valori e dei comportamenti che possono consentire di ridurre le criticità e valorizzare le risorse disponibili, non si va da nessuna parte.
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