La qualità del mercato del lavoro, intesa come entità di persone in età di lavoro attive e dotate dei valori e delle competenze in grado di soddisfare i fabbisogni delle organizzazioni produttive, viene considerata uno dei pilastri fondamentali per il sostegno della crescita dell’economia e per rendere sostenibile l’impatto delle innovazioni tecnologiche sulle organizzazioni produttive e sull’occupazione.
Gli investimenti sulle risorse umane, per migliorare gli approcci educativi e l’occupabilità delle persone, dipendono a loro volta dal concorso di numerosi attori – le famiglie, le istituzioni formative, lo Stato, le imprese – che per le specifiche finalità sono chiamati a investire in questa direzione. L’efficacia di questi investimenti, sul versante del mondo del lavoro, è dimostrata dalla capacità di soddisfare i fabbisogni produttivi, di aumentare i redditi delle persone e delle famiglie e di assicurare in parallelo le risorse per la gestione dei beni collettivi e delle prestazioni sociali.
In tal senso, gli indicatori che vengono utilizzati per valutare l’efficacia delle politiche del lavoro (tasso di occupazione, intensità ed efficacia degli investimenti formativi, capacità di soddisfare i fabbisogni delle attività produttive e di assicurare le risorse per le prestazioni sociali) risultano da diverso tempo in costante deterioramento nel nostro Paese. Tanto da mettere in discussione, anche nell’immediato futuro, la tenuta di interi comparti di attività.
Possiamo comprendere l’entità di questi ritardi comparando alcuni indicatori quantitativi e qualitativi relativi all’evoluzione del nostro mercato del lavoro tra il quarto trimestre del 2008 e il primo trimestre dell’anno corrente. Un periodo caratterizzato da due lunghi cicli economici negativi (la crisi del debito sovrano e la pandemia Covid) che, unitamente all’evoluzione demografica della popolazione in età di lavoro, hanno contribuito a mutare profondamente le caratteristiche dell’occupazione italiana.
Il numero complessivo degli occupati, grazie al recupero dei posti di lavoro persi nel corso della pandemia, è tornato a superare i 23 milioni, di poco superiore (+170 mila) rispetto a quello registrato nell’ultimo trimestre del 2008. Il tasso di occupazione migliora in modo consistente superando per la prima volta il 60% nella recente rilevazione dell’Istat per il mese di giugno u.s., anche per effetto della riduzione del numero delle persone in età di lavoro (-864 mila).
Il numero delle ore complessivamente lavorate rimane ancora inferiore (-5%) per via dell’aumento dei rapporti di lavoro part-time, circa 1 milione in più, intervenuto nel corso dell’ultimo decennio. L’equipollenza del numero degli occupati nei periodi presi in esame non deve far sottovalutare l’entità delle mutazioni intervenute sulle caratteristiche della forza lavoro. La più rilevante riguarda l’invecchiamento della popolazione occupata con una crescita di 2,395 milioni di over 50 e la contemporanea riduzione dei lavoratori under 35 (-813 mila) e di quelli tra i 35-59 anni di età (-1,460 milioni). Il tasso di occupazione dei giovani si è ridotto di 5 punti sia per la componente degli under 25 che per lo scaglione superiore fino ai 35 anni. Un andamento costante che offre una spiegazione anche del mancato ricambio generazionale della fascia tra i 35 e i 49 anni di età. L’incremento degli occupati over 50 è motivato per la gran parte dall’invecchiamento delle persone nate nel periodo del baby boom e, solo in minima parte, dall’allungamento dell’età pensionabile intervenuto con La legge Fornero del 2012.
Un secondo dato distintivo è la compensazione di genere intervenuta tra maschi (-384 mila) e femmine (+522 mila). Il tasso di occupazione delle donne rimane distante di 18 punti rispetto a quello degli uomini, ma il percorso di recupero è destinato a registrare ulteriori miglioramenti per effetto della maggiore incidenza femminile nelle nuove generazioni. Significativa in tal senso anche la riduzione di circa 1,4 milioni nella componente delle donne inattive.
Aumentano in modo rilevante le distanze territoriali. Il numero degli occupati del 2008 risulta superato nelle aree del Nord e del Centro Italia (rispettivamente +1mila e +153 mila), ma in riduzione ( 454 mila) nelle regioni del Mezzogiorno.
Significativo il cambiamento intervenuto sulla caratteristiche del rapporto di lavoro. Cresce la quota dei dipendenti, poco più di 1 milione, tra i quali 985 mila con rapporti a tempo determinato, e crolla (-824 mila) quella dei lavoratori autonomi. Anche il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato raggiunge il suo massimo storico (14,7 milioni) nel mese di giugno 2022.
Ma ci sono altre caratteristiche qualitative oltre che quantitative che meritano di essere considerate. Il peso ponderale della nuova occupazione si è spostato in modo radicale sui comparti dei servizi per il mercato e quelli rivolti alle persone che hanno più che compensato le perdite subite nell’industria in senso stretto (-275 mila) e nelle costruzioni (-605 mila). La riduzione degli occupati nell’industria e nelle costruzioni è avvenuta nella prima parte dei 12 anni presi in considerazione. Il recupero dell’impatto negativo della pandemia sulle imprese dei servizi è atteso per l’anno in corso con la ripresa dei comparti del turismo e della ristorazione.
Questi cambiamenti hanno influenzato anche le caratteristiche dei rapporti di lavoro. Oltre l’andamento crescente dei part-time e dei rapporti a termine già segnalato in precedenza, legato soprattutto alle caratteristiche stagionali dei settori che hanno trainato la ripresa dell’occupazione dopo il 2014, va segnalata anche la rilevante riduzione lavoratori con media ed elevata qualificazione (-220 mila), della quota degli operai qualificati (-1,052 milioni) e la parallela crescita delle mansioni non qualificate (+480 mila) e degli addetti al commercio e ai servizi (+745 mila).
Rilevante il fatto che tutti gli scostamenti segnalati avvengano in coincidenza della crescita di circa 800 mila occupati immigrati di origine comunitaria ed extracomunitaria che hanno praticamente caratterizzato: i quattro quinti del ricambio occupazionale avvenuto in Italia; la quasi totalità dell’incremento della componente femminile e la quota più rilevante dell’offerta di lavoro rivolta a soddisfare la domanda di prestazioni poco qualificate.
Il deterioramento del nostro mercato del lavoro viene evidenziato anche nelle comparazioni operate nelle statistiche elaborate dall’Eurostat per i Paesi aderenti all’Ue. La distanza del tasso di occupazione italiano rispetto alla media è aumentata di tre punti in via generale e in misura maggiore per quello delle donne e dei giovani. Aumentano anche gli squilibri territoriali e i tassi di inattività per i giovani under 34. Per questi ultimi pesa la componente degli oltre 3 milioni di neet (giovani under 34 che non studiano e non lavorano), maglia nera assoluta del continente.
Aumentano le distanze anche per il numero dei giovani laureati e per gli investimenti formativi operati dalle aziende per i lavoratori occupati, nonostante i miglioramenti registrati negli anni recenti nell’ambito nazionale. Numeri che offrono un’abbondante spiegazione alle crescenti difficoltà riscontrate dalle nostre imprese nel reperire le risorse umane necessarie per soddisfare i fabbisogni professionali di ogni tipo. Quelli che richiedono competenze elevate acquisite con adeguati percorsi formativi o maturate nell’ambito dei percorsi lavorativi, e per le mansioni che comportano disagi di vario genere nelle prestazioni lavorative. Buona parte di queste contraddizioni sono state compensate dall’universo mondo del lavoro sommerso: dai doppi o dai tripli lavori, dai lavori occasionali, dalle prestazioni dei lavoratori autonomi e dipendenti non dichiarate nell’ambito dei contratti e dei rapporti di lavoro regolari, con il lavoro in nero e sotto remunerato degli immigrati. Un sistema rimasto pressoché inalterato negli anni presi in considerazione, per un valore dei redditi e delle prestazioni lavorative occultate equivalente a circa 3,5 milioni di lavoratori a tempo pieno.
È con questo mercato del lavoro che l’Italia si accinge ad affrontare quella che si annuncia come la più intensa trasformazione degli apparati produttivi, condizionata dal fabbisogno di intensificare gli investimenti tecnologici e organizzativi per rendere sostenibile la transizione ecologica e digitale e che deve fare i conti con una complicata crisi delle relazioni geopolitiche a livello internazionale.
Per conciliare i fabbisogni di aggiornamento e di riqualificazione delle competenze dei lavoratori, per rendere sostenibile l’occupabilità delle persone e la mobilità del lavoro per diversi milioni di persone servono infrastrutture complesse, investimenti mirati e modalità di cooperazione tra gli attori pubblici e privati che nel nostro Paese, fatte salve alcune lodevoli eccezioni, non vengono nemmeno prese in considerazione.
Nel contempo dovremo trovare risposte alla drastica riduzione della popolazione in età di lavoro già in corso per motivi demografici (-4 milioni di persone entro il 2040), del contemporaneo aumento di 2 milioni di pensionati e al raddoppio degli attuali 3,8 milioni di persone, del tutto o in parte, non autosufficienti destinate ad aumentare in modo esponenziale la spesa pensionistica, sanitaria e assistenziale.
Il bacino di potenziali nuovi occupati a cui attingere è rappresentato da 5 milioni di persone disoccupate o potenzialmente disponibili a lavorare che, per le carenze di competenze o per l’indisponibilità a svolgere le mansioni richieste, non riesce nemmeno a soddisfare i fabbisogni ordinari legati al rimpiazzo dei lavoratori pensionabili che risulta di gran lunga superiore a quello dei giovani in uscita dai percorsi scolastici.
L’Italia si ritrova nella condizione potenziale di poter accelerare il ricambio generazionale e di genere, dato che i giovani e le donne rappresentano in via di fatto l’unica riserva disponibile, ma di dover prendere atto dell’impossibilità di espandere le attività produttive per la carenza di competenze o per la mera indisponibilità di un’adeguata offerta di lavoro.
Il dibattito sulla materia in Italia è semplicemente ridicolo. Attardato sui luoghi comuni che tendono ad attribuire le cause dei nostri problemi a fattori esterni (la globalizzazione e l’Europa cattiva) e agli imprenditori indisponibili a remunerare adeguatamente i lavoratori, nel cercare di nobilitare le motivazioni dei (tanti) beneficiari dei sostegni al reddito che rifiutano le proposte di lavoro regolare. In generale auspichiamo di poter raggiungere i risultati ottenuti nella maggior parte dei Paesi della vecchia Europa trascurando i percorsi faticosi e necessari per poterli ottenere.
La scorciatoia ideale per poter far convivere la botte piena e la moglie ubriaca diventa sempre l’introduzione di qualche provvedimento di legge, sostenuto da nuove iniezioni di spesa pubblica, che impone alle imprese di aumentare i salari, di assumere le persone a tempo indeterminato. Viene auspicata la riduzione dei contributi sociali per favorire la crescita dei salari netti, riducendo i finanziamenti che dovrebbero garantire la sostenibilità di un sistema previdenziale già in difficoltà. Ma per non farci mancare nulla, i medesimi soggetti propongono di anticipare l’età dei pensionamenti e di aumentare le pensioni minime. Potrebbero sembrare delle prese per i fondelli, e con tutta probabilità si riveleranno tali. Ma purtroppo queste sono le proposte che le forze politiche, di diversa estrazione, stanno predisponendo per la campagna elettorale.
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