Era il tempo della speranza. L’Unione europea sfidava se stessa attraverso la svolta compiuta dal Consiglio tenuto a Lisbona nel 2000, dove fu preso l’impegno solenne di trasformare l’Europa, entro il 2010, nell’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e di una maggiore coesione sociale nel rispetto della sostenibilità ambientale. Era il non plus ultra del “politicamente corretto”.
Negli obiettivi da raggiungere entro un decennio uno, molto importante, riguardava le politiche sociali e del lavoro. Erano previsti precisi target per quanto riguarda i livelli di impiego da raggiungere entro il 2010. Il tasso di occupazione sarebbe dovuto salire mediamente dal 61% al 70%, con particolare attenzione al lavoro delle donne (dal 51% al 60%), e degli anziani (da 55 a 64 anni, dal 38% al 50%). In quest’ultimo caso l’obiettivo era assunto in conseguenza delle tendenze demografiche che stavano sconvolgendo e hanno continuato a sconvolgere la struttura della popolazione e del mercato del lavoro per quanto riguarda il rapporto tra giovani e anziani e il tasso di dipendenza degli anziani sulla popolazione attiva.
Fin da allora era chiaro che il tasso di occupazione degli anziani (ammesso e non concesso che una persona – sia essa uomo o donna – di 55 anni possa essere considerata anziana) prima ancora che da politiche del lavoro sarebbe dipeso dalle riforme pensionistiche con riguardo in articolare all’età effettiva alla decorrenza del pensionamento, essendo questo il principale parametro della sostenibilità del sistema con riferimento all’attesa di vita.
Dalla ormai leggendaria Lisbona 2000 sono trascorsi più di vent’anni. Durante quest’arco di tempo, i capi di Stato e di governo vollero tornare a Lisbona per lanciare la strategia di Europa 2020 con i seguenti indicatori: il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro; innalzare al 3% del Pil i livelli d’investimento pubblico e privato nella ricerca e lo sviluppo; ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 20% rispetto ai livelli del 1990 e portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabili nel consumo finale di energia; il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve avere una laurea o un diploma; 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio povertà.
Questo programma ambizioso è poi passato lungo un percorso costellato di forche caudine, che hanno messo in grande difficoltà non solo la realizzazione del salto di qualità auspicato in un ampio ventaglio di politiche innovative, ma la stessa Unione e la moneta unica. Alla crisi finanziaria del 2008 è seguito il rischio di default del debito sovrano. Senza l’adozione, da un lato, di politiche di rigore e l’intervento della Bce nell’acquisto dei titoli di Stato per tenere sotto controllo i tassi di interesse, l’Unione non sarebbe stata in grado di sostenere – sul piano politico – l’offensiva del sovranpopulismo (che soprattutto in Italia è riuscito a manipolare, nel 2018, importanti riforme del mercato del lavoro e delle pensioni). La lenta ripresa dell’economia – che si era contraddistinta anche per saggi negativi – è stata travolta dall’emergenza sanitaria. Le misure di contenimento, adottate nel 2020, hanno demolito ben 9 punti di Pil in 100 giorni.
La portentosa ripresa (inclusi gli effetti rimbalzo) del 2021 è in via di ridimensionamento in conseguenza della crisi energetica, delle materie prime e dei servizi, precedenti l’invasione russa dell’Ucraina e aggravati dalla guerra in corso. In tale contesto, l’Eurostat ci ha dato atto di aver realizzato (sia pure con un ritardo di anni) almeno uno degli obiettivi di Lisbona 2000. Secondo quanto pubblicato, nei giorni scorsi, in Italia nel 2021 lavoravano in media 4 milioni 588mila persone tra i 55 e i 64 anni con un aumento di 1 milione 775mila unità rispetto a 10 anni prima. Grazie alle riforme che hanno aumentato l’età di accesso al pensionamento e all’andamento demografico in Italia lavorava nel 2021 il 53,4% delle persone tra i 55 e i 64 anni con un aumento di 15,9 punti percentuali. Il dato è ancora più evidente per le donne (+16,1 punti, dal 27,9% al 44%). Secondo le stime di Eurostat, nell’Ue, nello stesso periodo preso in esame, l’occupazione nella fascia più anziana è cresciuta di oltre 11 milioni di unità.
È opportuno tener conto del fatto che questi processi hanno avuto – nell’Unione – una partenza lenta seguita, invece, da un’accelerazione in anni più recenti. Per quanto riguarda, infatti, l’evoluzione del tasso d’impiego dei lavoratori in età compresa tra i 55 e i 64 anni, il tasso era progredito solo di tre punti dal ’99 stabilendosi al 40,1% nel 2002.
Quando si parla del tasso di occupazione degli “anziani” occorre tener conto della componente demografica. L’incremento della relativa fascia d’età è solo un’illusione ottica determinata dall’aumento materiale di queste coorti anagrafiche, nel senso che la crescita di numero riguarda persone già occupate, ma transitate (è lì computate) in un’altra coorte anagrafica per il naturale trascorrere degli anni.
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