La Fondazione Tarantelli ha pubblicato un interessante working paper sulla questione salariale (lo ha curato Giuseppe Gallo), un tema al centro della campagna elettorale, con diverse proposte dei partiti, che hanno in generale il torto di ripristinare l’antico principio del Tempo degli Unni secondo il quale il salario era considerato una variabile indipendente. Da quest’analisi derivano le seguenti conclusioni: le retribuzioni sono troppo basse, occorre aumentarle, anche a spese della finanza pubblica. L’autore si adopera invece per individuare le relazioni tra salari e produttività, iniziando a osservare che la misurazione (valore aggiunto reale per ora di lavoro, fatto 100 il 1996) fa emergere, nel periodo 1996- 2015, due gruppi di Paesi con dinamiche di produttività del lavoro molto diverse: i Paesi Centrali (Germania, Austria, Francia, Olanda) hanno avuto una crescita compresa fra il 59% della Germania e il 101% della Francia; i Paesi Periferici (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) hanno registrato una crescita fra l’8% della Grecia e il 48% del Portogallo, con la Spagna al 38% e l’Italia al 22%.



Mentre nei Paesi Centrali la protezione del lavoro è stata sempre positivamente associata all’incremento della produttività del lavoro e alla crescita del Pil, nei Paesi Periferici sono stati dominanti l’effetto organizzazione, correlato al costo assoluto del lavoro, l’effetto investimenti di sviluppo e l’effetto di disturbo associato agli investimenti correnti. L’indagine disegna, pertanto, due modelli alternativi di sviluppo: il primo con baricentro sulla strategia di ricerca, innovazione tecnologica, organizzativa, professionale, gestionale dell’impresa, elevata crescita della produttività del lavoro, estensione del mercato; il secondo che fonda il differenziale competitivo sui minori salari e sul minor costo del lavoro, depotenziato dalla riduzione degli investimenti in innovazione e dal minor tasso di crescita della produttività del lavoro.



Anche i recenti dati Ocse sulle variazioni percentuali dei salari nel periodo 1990-2020, sottolinea Gallo, pur riferiti alle medie salariali lorde nazionali (non al costo del lavoro) e prive di un benchmark, vedono i Paesi Periferici nelle ultime posizioni con un tasso di incremento medio pari all’11,87% (Italia -2,90%), mentre i Paesi Centrali registrano un +28,30%. Ne risulta, prosegue il curatore del rapporto, che i Paesi che hanno adottato un modello competitivo di lungo periodo impostato su ricerca, innovazione, sviluppo ad alto tasso di valore aggiunto e di competenze professionali, crescita costante della produttività, hanno registrato un superiore saggio di aumento del Pil, tassi decisamente maggiori di incrementi salariali, miglior presidio della coesione sociale. Viceversa, i Paesi che assumono il minor costo del lavoro come leva competitiva alternativa hanno tassi di crescita minori, salari inferiori, maggior tendenza alla disgregazione sociale. L’Italia ne rappresenta il paradigma probatorio. Costo del lavoro e dinamica salariale notevolmente minori nella comparazione con i maggiori Paesi industriali europei, nonostante un orario medio annuo di lavoro decisamente maggiore (nel 2021: Italia 1.668 ore contro 1.349 della Germania e 1.490 della Francia). Produttività più bassa: Pil per ora lavorata nel 2021 pari a 42,4 euro in Italia; 59,2 in Germania, 57,1 in Francia, poiché la maggior durata oraria della prestazione lavorativa in Italia è più che compensata dalla maggior produttività del lavoro in Germania e in Francia.



Risulta, infatti, decisiva non la dimensione quantitativa del lavoro quanto il contenuto di valore aggiunto e di intelligenza tecnologica e professionale dei sistemi produttivi. Ne è derivato il “Ventennio perduto” dell’economia italiana (Mario Baldassarri, XV Rapporto dell’Associazione Economia Reale), ovvero la stagnazione del Pil nel periodo 2000/2019 (tasso medio annuo di crescita 0,2%) e la perdita accentuata di posizioni competitive poiché nel 2000 il Pil pro capite italiano superava di 20 punti percentuali il Pil pro capite medio dell’Ue e nel 2019 era inferiore di 6 punti percentuali; egualmente nel 2000 il Pil pro capite italiano era superiore di 3 punti percentuali a quello medio dell’Eurozona, mentre nel 2019 era inferiore di 15 punti percentuali.

È fuor di dubbio, pertanto, che il modello – sostiene Gallo – che punta le sue carte competitive sulla minor protezione del lavoro, sui bassi salari, sulla bassa produttività sia un modello perdente, condannato a oscillare fra stagnazione e recessione, tendenzialmente declinante, con effetti di disgregazione sociale e di logoramento delle stesse istituzioni democratiche.

A questo punto, nel rapporto viene citato un recente rapporto, a cura del Centro Studi di Assolombarda (“Produttività in Italia. Quadro generale e ruolo di Lombardia e PMI”, Ricerca n.11/2021) il quale, secondo Gallo, confermerebbe, sostanzialmente, il dualismo di modelli di sviluppo operante nell’Ue, ancorché aggiornato. La produttività oraria del lavoro (misurata dal rapporto fra Pil e ore lavorate) fatto 100 il 2000, nel 2019 risulta: 104 Italia (107 Lombardia); 117 Spagna; 119 Francia; 120 Germania. Disaggregando la misurazione per settori produttivi, il quadro sarebbe sostanzialmente confermato A) Settore manifatturiero, fatto 100 il 2000, nel 2019 i valori sono i seguenti: 124 Italia, 138 Germania, 149 Spagna, 156 Francia. B) Settore dei servizi professionali alle imprese: 85 Italia, 91 Germania, 100 Spagna, 101 Francia. C) Settore ICT: 137 Italia, 134 Spagna, 172 Francia, 174 Germania.

L’indagine del Centro Studi di Assolombarda introduce, altresì, la variabile delle differenze di produttività del lavoro per classi dimensionali di imprese, una chiave di lettura dalla quale risulta che il dualismo di modelli di sviluppo opera anche all’interno dell’economia italiana, con conseguente articolazione, assai più rigorosa, del quadro analitico. Risulta, infatti, che la bassa produttività del lavoro si concentra nelle microimprese (0-9 addetti), un aggregato molto rilevante in Italia che rappresenta il 95% delle imprese (in Germania l’82%) e occupa il 45% dei lavoratori (in Germania il 19%). Nel settore manifatturiero italiano la produttività del lavoro nelle microimprese, fatto 100 la Germania, è, infatti 78,3, mentre nella fascia 10-19 addetti sale a 102,8 (migliore di quella tedesca); nel segmento 20-49 addetti raggiunge il valore 118,7 (la miglior performance, superiore all’indice sia della Germania, sia della Francia, sia della Spagna); nel livello 50-249 addetti l’Italia è, ancora, decisamente prima a 128,8 (Germania 100, Spagna 100, Francia 105,4); nella fascia oltre 250 addetti l’Italia si posiziona a 97, la Germania a 100, la Francia a 95, la Spagna a 91.

Come si può, agevolmente, osservare a esclusione delle microimprese, nelle PMI e nelle grandi imprese manifatturiere italiane, a parità di classe dimensionale, la produttività del lavoro è allineata e anche superiore a quella tedesca e francese e costantemente migliore di quella spagnola. Emerge, pertanto, un’elevata asimmetria di produttività del lavoro per livelli dimensionali delle imprese che si articola in squilibri territoriali e in differenziali territoriali per composizioni settoriali. Essa rinvia alla compresenza nell’economia italiana del dualismo di modelli di sviluppo. Laddove la discriminante fondamentale è rappresentata dal grado di integrazione nelle catene globali di fornitura e del valore, distinta e sovrapposta allo storico scarto fra e Centro-Nord e trasversale agli stessi territori, al di là della collocazione geografica.

Leggendo con questo criterio – sostiene il curatore – la configurazione industriale del nostro Paese, emergono, nitidamente (per limitarci a un solo esempio) filiere da Trieste a Torino, passando per Emilia Romagna, Veneto, Lombardia, che, complessivamente, possono vantare un valore aggiunto manifatturiero e una produttività del lavoro superiori alla somma di Baviera e Baden Wurtemberg e aree, prevalenti, residuali o estranee alle catene della manifattura e dell’economia globale. La mancata evoluzione delle eccellenze in sistema spiega l’apparente contraddizione fra l’Italia seconda manifattura europea dopo la Germania e l’Italia nelle ultime posizioni europee per tasso di crescita del Pil nell’ultimo ventennio, per crescita della produttività del lavoro, per livelli salariali, tasso di occupazione e disoccupazione generale, femminile, giovanile, , livelli di istruzione, tasso di povertà. Spiega, in sintesi, la debolezza del posizionamento competitivo del nostro Paese e la precarietà del suo assetto di coesione sociale che segmenti di eccellenza economica contrastano senza, tuttavia, invertire la tendenza al declino.

Si pone, dunque secondo Gallo, il problema del riequilibrio dimensionale, del ridimensionamento dell’area e dell’incidenza delle microimprese, ovvero dell’avvio di processi di concentrazione decisivi per acquisire standard dimensionali, di innovazione tecnologica, organizzativa, professionale, gestionale, di relazioni sindacali, di corporate governance in grado di contribuire alla crescita sistemica della produttività, al potenziamento dei settori produttivi ad alto valore aggiunto ed elevati contenuti professionali nei quali l’Italia può essere leader globale e al rafforzamento del posizionamento competitivo dell’economia italiana. Ne consegue che la politica industriale deve abbandonare la sua storica latitanza e assumere un ruolo rilevante di indirizzo condiviso fra Governo e Parti Sociali, in merito alla posizione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro, alle filiere e ai settori nei quali può giocare un ruolo di leadership globale, ovvero alla sua complessiva identità industriale.

All’interno di questa visione strategica la dimensione d’impresa è una variabile determinante e chiama in causa i suoi corollari sistemici, dalla gestione esclusivamente familiare, ai passaggi generazionali, all’alto tasso di mortalità delle microimprese, al rapporto fra proprietà e management, al rapporto banca-impresa e borsa-impresa, alla partecipazione dei lavoratori all’innovazione dell’organizzazione del lavoro, al modello cooperativo di relazioni sindacali, al governo partecipativo multi stakeholder dell’impresa.

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