Non solo l’Ucraina al centro del Consiglio europeo appena conclusosi. Si è parlato, infatti, anche della situazione migratoria, definita come una sfida europea e che richiede, appunto, in quanto tale, una risposta a quel livello.

Il Consiglio europeo ha, quindi, analizzato lo stato concreto di attuazione delle sue precedenti conclusioni, tutte finalizzate allo sviluppo di un approccio globale alla migrazione che, coerentemente al complessivo progetto europeo, combini il rafforzamento del controllo, rendendolo più efficace, delle frontiere esterne dell’Europa e la dimensione interna, nel rispetto del diritto internazionale, dei principi e dei valori condivisi dai popoli europei.



In questa prospettiva assumono un valore sempre crescente studi, come quello dell’Istat pubblicato nei giorni scorsi, che indagano, numeri alla mano, sul livello di integrazione dei lavoratori stranieri, compresi i “naturalizzati”, nel nostro mercato del lavoro. Si pensi, in particolare, al ruolo del capitale umano e della conoscenza della lingua italiana nei processi di integrazione, all’adeguatezza del lavoro svolto rispetto alle proprie competenze (anche in confronto a eventuali precedenti esperienze lavorative in altri Paesi) e agli ostacoli incontrati da queste persone per ottenere nel nuovo Paese un lavoro adatto al proprio livello di istruzione.



Emerge, ad esempio, che, dal momento che, nella gran parte dei casi, il lavoro costituisce il motore principale del progetto migratorio per gli stranieri, la loro presenza tra le forze lavoro è generalmente molto elevata, con tassi di occupazione e di disoccupazione tradizionalmente superiori a quelli degli “italiani nati in Italia”. Tra i naturalizzati invece, che più spesso degli stranieri sono, altresì, arrivati in Italia per motivazioni familiari, si rilevano un più basso tasso di occupazione e un più elevato tasso di inattività, dovuti soprattutto alla componente “rosa”. Dall’altra parte, per quanto attiene alla componente maschile dei “naturalizzati”, si registra che i livelli e la dinamica dell’occupazione e dell’inattività sono, invece, decisamente più simili a quelli degli italiani “per nascita” che a quelli dei cittadini stranieri.



Sembra, insomma, ahimè, che al crescere del livello d’integrazione cresca, nel nostro Paese, la tendenza ad assimilare, in modo poco virtuoso, anche i tipici, e per molti aspetti cronici, vizi italici come una certa indolenza verso il lavoro e, quindi, allo stesso tempo, ad annullarsi quella spinta propulsiva che, tradizionalmente, è legata all’arrivo di nuove energie in un Paese. Potremmo, insomma, dire, quindi, in maniera forse un pò paradossale, che il processo d’integrazione sta, decisamente, funzionando.

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