Nell’anno in corso la ricorrenza dell’8 marzo è caduta di venerdì. Si è verificata così un’altra buona occasione per proclamare uno sciopero generale: questa volta contro i femminicidi, per la parità di genere, la parità salariale, ma anche per il salario minimo o contro l’autonomia differenziata. Tante motivazioni per numerose sigle aderenti alla mobilitazioni: Flc Cgil, Slai Cobas, Adl Cobas, Cobas Usb, Cobas Sub, Osp Faisa Cisal, Usi Cit, Clap, Si Cobas, Cub Trasporti, Uitrasporti, Usi 1912, Uiltec Uil.
Come si può notare, a dichiarare lo sciopero non sono stati – come quasi tutti i venerdì – i soliti sindacati di base. Anche alcune federazioni di categoria (scuola e trasporti) di Cgil e Uil hanno partecipato a un abuso del ricorso allo sciopero che trasforma un diritto fondamentale in una “messa nera”. Ma quest’anno c’era una motivazione più: quella di cooptare nello sciopero la giornata di mobilitazione femminista e trans femminista promossa dal movimento “Non una di meno”. Per farla breve, lo sciopero riguardava sia il lavoro produttivo (compreso ovviamente il famigerato precariato a cui occorreva dare visibilità), ma anche il “lavoro riproduttivo: domestico, di relazione, di cura e assistenza” (come nella “Lisistrata” di Aristofane ?).
Le manifestazioni, poi, si sono orientate altrimenti, trasformandosi in un’ulteriore occasione di sostegno alla “Palestina libera” (dal fiume al mare?) e di condanna del “genocidio”. Tra le multiformi iniziative non si è trovato il tempo per qualche gesto di solidarietà per le donne di Israele massacrate dai terroristi di Hamas, di quelle tenute in ostaggio da allora e sottoposte – come risulta dalla commissione dell’Onu che ha reso noto nei giorni scorsi il suo rapporto – a “violenza sessuale, mutilazione genitale, tortura sessualizzata e trattamenti inumani” tuttora in corso durante la prigionia. Nel mare di parole che annunciano e motivano lo sciopero non vi è traccia di questi eventi.
L’antifona si era già capita durante la manifestazione del 25 novembre. Evidentemente per questi variopinti movimenti è divisivo evocare il 7 ottobre. Sembra normale che le donne ebree continuino a essere alla mercé dei nazisti di oggi come, nei campi di sterminio, lo furono di quelli del secolo scorso? La ricorrenza della Festa internazionale della donna è stata dunque, almeno per chi scrive, un autodafé nei confronti di una visione della realtà, deformata da ideologie che, nella storia dell’umanità, hanno partorito solo mostri. Eppure, l’occasione c’era.
Pochi giorni prima dell’8 marzo, Veronica De Romanis, in un saggio su Il Foglio con il profilo di un Manifesto, aveva messo bene in evidenza la centralità del lavoro delle donne (il tasso d’occupazione femminile italiano, nonostante l’incremento di un milione di unità è agli ultimi posti in Europa) che costituisce quella che l’economista chiama “la grande anomalia” del nostro Paese. Ed è appunto sulla questione donne/lavoro che si intrecciano altri “vizi” del sistema Italia che ne pregiudicano lo sviluppo economico, ne determinano la crisi demografica e gli squilibri delle istituzioni sociali, oltre ovviamente a un’effettiva discriminazione di genere. Il Paese si sta accorgendo con grande e colpevole ritardo del fenomeno della denatalità: dal 2014 il saldo demografico resta negativo anche includendo l’immigrazione; da allora vi sono 1,4 milioni di residenti in meno di cui più di 900mila nel Mezzogiorno. L’Italia non è solo il Paese col tasso di natalità e di occupazione più bassi nell’Unione, ma – al contrario di quanto accade nelle esperienze internazionali in cui “il tasso dell’occupazione femminile è correlato positivamente al tasso di natalità” (ovvero le lavoratrici sono anche madri e le madri continuano a lavorare) – da noi vi è una differenza di 20 punti nel tasso di occupazione tra le donne tra i 25 e i 40 anni senza figli e quelle con figli in età prescolare. In sostanza – ha scritto De Romanis – “le donne senza impiego servono al nostro sistema di welfare”. Ma per rovesciare questo circolo vizioso sono necessarie politiche e strutture adeguate nel campo delle politiche sociali, a partire dagli asili nido.
Si arriva quindi a una questione di “volontà politica” nell’allocazione delle risorse. E qui sta il punto chiave della nostra storia. Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana assegna il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. In termini di Pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1% che è pari a 1/17 di quanto viene destinato alle pensioni. Dal 1995 a oggi vi è stata una vera e propria spoliazione di risorse dalle politiche per la famiglia (e la natalità) a quelle pensionistiche. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari (AF) era pressoché corrispondente a quella per le pensioni. Gli AF allora erano misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare (ANF) il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato attraverso una scala di equivalenze, al reddito e al numero dei componenti.
La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla Legge Dini-Treu nel 1995 (dettata, parola per parola, al Governo da pare dei sindacati), stabilì, a copertura, una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7% (in seguito al 33%). Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, a oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota dell’ANF passò dal 6,2% al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23% allo 0,66%. Altri tagli riguardarono gli ammortizzatori sociali. Ci andò di mezzo (a proposito delle giovani famiglie e del caro affitti) anche la politica della casa (che da noi non viene neppure inclusa tra le politiche sociali). L’aliquota ex Gescal (un tempo rivolta a finanziare l’edilizia popolare) passò dallo 0,70% prima, allo 0,35% poi, e infine allo zero assoluto. A prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi per l’ANF, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi. A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite alla voce pensioni, corrisposero a 8,5 miliardi l’anno.
Come documentò la Cei in un saggio “Il cambiamento demografico” pubblicato da Laterza , dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, pari a circa 120 miliardi di euro.
Ma c’è dell’altro: all’interno della Gestione prestazioni temporanee (GPT) dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali “minori” in quanto non pensionistiche), la voce “assegno al nucleo familiare” – nonostante la riduzione dell’aliquota – continuò a incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto veniva speso: l’avanzo era riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Ente, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni. L’istituzione dell’Assegno unico universale (AUU, una prestazione di carattere assistenziale) ha rappresentato l’inizio di un’inversione di rotta. Ma la quota universale è relativamente bassa, rispetto ad altre esperienze e all’esigenza di consentire a una famiglia di mantenere inalterato, dopo l’arrivo di un figlio, il proprio livello di benessere. Il reddito mensile dovrebbe migliorare – secondo Neodemos – in media di 720 euro, considerando solo gli aspetti economici.
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