Le prospettive per l’economia italiana non sono rosee, come testimoniato dal taglio delle stime sul Pil 2022 dal +3,2% al +2,3% operato da Moody’s e dalle previsioni di Intesa Sanpaolo e Prometeia sulla crescita della manifattura portate dal 4,9% all’1,5%. I dati diffusi ieri dall’Istat trasmettono comunque un certo ottimismo, visto il rialzo del fatturato dell’industria a marzo (+2,4% congiunturale e +21,4% tendenziale) e l’incremento degli indici di fiducia di consumatori (da 100 a 102,7) e imprese (da 108,4 a 110,9) a maggio.



Forse anche per questo da Davos il ministro dell’Economia Franco ha detto di vedere “un’economia di imprese e famiglie che resistono“. «La resilienza di cui ha parlato Franco è effettiva. Pur con la guerra e il prezzo gas alle stelle, i numeri reali dicono che l’Italia riesce a tenere meglio di altri Paesi», è il commento di Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano,



Ci parli di questi numeri reali.

Arrivano fino al primo trimestre e delineano un quadro in cui il Pil non è crollato come ci si aspettava e la produzione industriale è l’unica, tra quella dei grandi Paesi dell’Eurozona, a non essere sensibilmente diminuita: a marzo il dato congiunturale italiano è stato pari a +0%, mentre quello tedesco a -5%. 

Come si spiega questa resilienza?

In parte è la stessa del 2021, a soffrire molto sono le industrie energivore, mentre il resto del manifatturiero sta comunque facendo i conti con il rialzo delle materie prime, e vede quindi i suoi margini ridursi, ma sta riuscendo a reggere. Nel primo trimestre il volume del fatturato dell’industria è cresciuto dell’1% in termini congiunturali. Anche la fiducia delle imprese manifatturiere non sta crollando, dato che l’indice è passato da 113,1 di gennaio a 109,3 a maggio. Nelle costruzioni si mantiene a livelli elevati (158,7) e nei servizi addirittura sale.



Di quanto?

Da 97,2 a 103,6. Questo significa che si intravvede una buona ripartenza del turismo. Anche per quanto riguarda il commercio al dettaglio l’indice è salito (da 103,6 a 105,5). Se noi traguardiamo questa situazione all’estate, può darsi che il Pil del secondo trimestre non sia poi così disastroso come si poteva pensare fino a qualche settimana fa. Non è quindi un momento facile, ma la rinnovata competitività del manifatturiero e la ripartenza dei servizi finora bloccati dal Covid stanno aiutando l’economia a resistere. Anche l’indice di fiducia dei consumatori è salito (da 100 a 102,7). 

Nonostante il rialzo dell’inflazione.

Esatto, le famiglie non stanno vedendo quell’erosione della situazione personale che ci si poteva attendere come conseguenza dell’inflazione, probabilmente anche per via dei provvedimenti adottati dal Governo – la sterilizzazione delle accise sui carburanti e il bonus una tantum da 200 euro -, che sta facendo di tutto per non far affondare la fiducia dei consumatori. È una strategia di breve termine, ma è l’unica possibile in un momento in cui non si sa ancora quanto durerà la guerra, se i prezzi dell’energia resteranno così alti e se l’inflazione in autunno sarà più bassa.

L’importante però è non farsi cogliere con la guardia abbassata rispetto alla crescita prestando troppa attenzione ai conti pubblici, visto anche il richiamo contenuto in tal senso nelle raccomandazioni della Commissione europea.

Certo. Le raccomandazioni della Commissione di fatto ci “contestano” le stesse cose da anni: bassa produttività, che non dipende dalla manifattura, ma dal resto del sistema, e debito pubblico elevato. Delle riforme che ci viene chiesto di approvare in cambio di oltre 200 miliardi di euro se ne parla da tempo, converrebbe farle in cambio dei fondi e della possibilità di aumentare la produttività di settori in cui resta bassa, come la Pubblica amministrazione o i servizi dove è scarsa la concorrenza. Questo ci aiuterebbe a ridurre il rapporto debito/Pil tramite una maggior crescita.

Non si corre il rischio, a livello europeo, di pensare che il Next Generation Eu basti ad affrontare anche l’attuale congiuntura internazionale?

Credo che l’Europa abbia avuto dalla guerra in corso ai suoi confini alcuni moniti. Anzitutto, quello relativo alla diversificazione degli approvvigionamenti energetici. Inoltre, è necessario ritarare certi obiettivi legati alla transizione ecologica: qualche ritardo sarà inevitabile. Occorre poi allungare i tempi del Pnrr, perché di fronte a una guerra non si può pretendere che i Paesi eseguano i progetti nei tempi inizialmente previsti: bisogna concedere più tempo per realizzare gli investimenti programmati. 

Bisognerà anche non limitarsi alla sospensione delle regole del Patto di stabilità per un altro anno.

Non possiamo certo pretendere la luna, ovvero la scomparsa definitiva del Fiscal compact e la garanzia che non ci sarà qualcosa di analogo, così da non ritrovarci nuovamente a fare i conti con l’austerity che non porta né crescita, né riduzione del debito, com’è stato dimostrato nel periodo 2011-14. Fortunatamente, però, la Commissione europea non è più fatta da integralisti dell’austerity come una volta, come dimostra il Ngeu. Probabilmente questo consentirà di fare in modo che le regole del Patto di stabilità vengano riscritte in un modo più intelligente. 

In che modo andrebbero riviste?

Le nuove regole del Patto di stabilità devono essere sì severe, ma non stupide, accessibili e non impraticabili. Questo perché, come abbiamo visto, se sono difficili da rispettare lasciano spazio alla speculazione che muove gli spread. Se tre Paesi fondanti dell’Eurozona (Francia, Italia e Spagna) vengono semplicemente indicati come Paesi con debito troppo alto, ci si dà la zappa sui piedi.

Ma è pur vero che hanno un rapporto debito/Pil elevato.

Sì, ma occorre far capire che questi rapporti non devono far paura. Occorre evitare di dare ai mercati finanziari il pretesto per dire che alcuni Paesi devono pagare interessi più alti sul debito. Questo può essere possibile, per esempio, portando gli Stati a ridurre i loro disavanzi primari in tempi normali, arrivando magari agli avanzi, come ha fatto l’Italia dagli anni ’90 in poi, senza però che siano del 5%, cioè senza spremere i Paesi. Le regole devono essere scritte per tenere in ordine il sistema e non per scassarlo dal suo stesso interno. Occorre anche lavorare sulla comunicazione. Ricordiamo quanto gli Usa siano stati abili sotto questo punto di vista, nonostante i guai del loro sistema bancario nel 2008, mentre l’Europa ha trasformato un problema piccolo come la Grecia in qualcosa di più grande persino dell’allora disastrato sistema finanziario americano. 

(Lorenzo Torrisi)

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