In relazione al precedente articolo, apparso su queste pagine lo scorso 12 gennaio, dal titolo “Long Covid e difesa della vita”, intendiamo qui approfondire in parte i contenuti del lavoro citato.

La sindrome Long Covid è definita come un complesso di sintomi che rimangono oltre tre mesi dopo un episodio di Covid o che compaiono entro tre mesi dalla guarigione e si mantengono nel tempo.



A questo scopo, all’interno di una collaborazione fra l’Ambulatorio Rivalutazione Covid (ARCOVID) del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Luigi Sacco e il Dipartimento di Statistica dell’Università di Milano Bicocca sono stati valutati 1.368 pazienti presentatisi per sindrome long Covid di varia intensità, di cui 575 originavano dalla prima ondata e 793 dalla seconda. Durante le visite ambulatoriali venivano raccolti i dati demografici, la gravità dell’episodio acuto secondo la scala Oms, la terapia, l’eventuale concomitanza di altre patologie e i sintomi che erano rimasti insieme a quelli che erano terminati, con la relativa data di termine.



I principali sintomi riportati (>5% della popolazione) erano 11: dispnea, tosse, astenia, dolori muscolo-scheletrici, cefalea, palpitazioni, ansia/attacchi di panico, alterazioni del sonno, del gusto, dell’olfatto, perdita massiccia e circoscritta di capelli. Al fine di favorire la valutazione statistica, i sintomi della sindrome Long Covid sono stati raggruppati in tre macro-aree (o macro-sintomi): neurologica, comprendente cefalea, amnesia/disturbi della concentrazione, ansia/panico, insonnia e palpitazioni; sensoriale, comprendente ageusia e anosmia; fisica, comprendente dispnea, astenia e artromialgie). La perdita di capelli non è stata presa in esame per il suo scarso impatto sulla salute (fenomeno transitorio).



Figura 1 Incidenza % dei sintomi per l’ondata e differenza per ondata. L’incidenza è calcolata come numero di nuovi casi individuati da un sintomo rispetto ai pazienti complessivi malati di Covid-19 in ogni ondata. Gli asterischi segnalano se il sintomo è significativo rispetto ai pazienti complessivi dell’ondata. Sono esclusi i valori mancanti.

Lo scopo originario dello studio era quello di valutare il nesso di tali sintomi e delle terapie usate nella fase acuta del Covid-19 con l’insorgenza della sindrome Long Covid o, al contrario, proteggere da questo rischio. La suddivisione fra prima e seconda ondata è motivata da un diverso approccio terapeutico fra le due e da diverse caratteristiche epidemiologiche (ad esempio, nella prima ondata più pazienti hanno dovuto gestire la fase acuta a domicilio o sono giunti più tardivamente alla diagnosi).

Figura 2 Profili degli 8 sintomi e dei 3 macrosintomi per ondata rispetto ai pazienti complessivi malati di Covid-19 in ogni ondata. Sono esclusi i missing values.

Globalmente si è osservato che la sindrome Long Covid ha colpito più i soggetti di sesso femminile e coloro che hanno contratto il Covid-19 nella seconda ondata, in particolare in termini di sintomi neurologi e fisici. Paradossalmente tra i pazienti che hanno sviluppato questa sindrome a partire dalla prima ondata sono stati maggiormente colpiti i più giovani e i meno gravi, secondo la scala Oms di gravità del Covid. L’insorgenza della sindrome è stata favorita da patologie concomitanti, in particolare metaboliche (diabete, ipertensione, alterazioni della funzione tiroidea, disturbi renali), autoimmuni o immunologiche (ad esempio, artrite reumatoide, morbo di Crohn) e polmonari. Meno frequentemente sono stati colpiti da sindrome Long Covid i pazienti in ossigeno-terapia mentre il peso corporeo, fattore critico nella fase acuta del Covid-19 non predice l’instaurarsi di Long Covid.

Sorprendente è la valutazione ex post dell’effetto dei farmaci durante il Covid-19: molti hanno avuto un effetto negativo sui pazienti.

Il tocilizumab (farmaco immunosoppressore usato nell’artrite reumatoide) e i farmaci antiipertensivi sono risultati efficaci rispetto ai sintomi sensoriali più frequenti nella prima ondata rispetto alla seconda (soprattutto nei soggetti di sesso maschile e più giovani).

La terapia anticoagulante è stata efficace rispetto ai sintomi fisici, ma negativo è stato l’effetto dell’utilizzo di farmaci beta-bloccanti (utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa) e il cortisone inalatorio (contro l’asma) forse perché le persone a cui erano somministrati erano già affette da patologie polmonari.

Anche l’idrossiclorochina (farmaco antireumatico), utilizzata come terapia sistemica anti-C Covid, durante la prima ondata (nella seconda l’Oms l’aveva già sconsigliata), ha avuto un effetto negativo rispetto ai sintomi neurologici ed è risultata impattante sulla sindrome Long Covid. Analogo effetto negativo sui sintomi neurologici hanno avuto altri farmaci utilizzati nella terapia del Covid, come il remdesivir (il primo antivirale approvato per il trattamento della malattia da Covid-19) e i cortisonici (farmaci antinfiammatori) il cui uso si è spesso allargato oltre l’indicazione che lo limitava ai casi di polmonite.

Nella stessa direzione, l’utilizzo di remdesivir e di eparina (utilizzati rispettivamente come terapia antivirale e prevenzione della trombosi) e di cortisone inalatorio, orale o endovenoso non ha ridotto il maggior impatto della sindrome Covid-19 nella seconda ondata.

Nel suo complesso lo studio effettuato appare innovativo e interessante in quanto consente di valutare, oltre ai fattori che espongono alcuni soggetti a un aumentato rischio di sindrome Long Covid, anche l’impatto a posteriori delle terapie di cura del Covid-19, permettendo un giudizio più globale su di esse. Questi farmaci, che hanno aiutato molte persone nella fase acuta, oggi sarebbero usati in modo più oculato, tenendo conto anche delle possibili conseguenze.

Anche il dato apparentemente contraddittorio che mostrava la presenza di alcune malattie croniche associata a una minore incidenza di Long Covid, sottende l’evidenza drammatica per cui questa sindrome ha soprattutto creato nuove cronicità in soggetti in precedenza sani.

Di particolare interesse è lo studio in corso sulla persistenza di tale sindrome a quattro anni dall’inizio, considerando che essa è stata un fenomeno prevalentemente causato dalle prime due ondate mentre le successive mutazioni virali ne hanno ridotto l’impatto.

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