Una recente analisi effettuata dal Sole 24 Ore sul rapporto esistente tra il numero dei lavoratori dipendenti e autonomi contribuenti e quello delle pensioni erogate, per diverse finalità, dall’Inps mette in evidenza come le rendite pensionistiche risultano superiori agli occupati in ben 34 province italiane. Le proiezioni Istat sull’andamento della popolazione in età di lavoro (15-65 anni) nei prossimi 10 anni segnalano una perdita di circa 3,4 milioni di unità e un aumento di circa 2 milioni di pensionati. Per mantenere invariato l’attuale rapporto su scala nazionale tra i contribuenti e il numero delle rendite pensionistiche (1,1) servirebbe una crescita di almeno 2,4 milioni di occupati, rispetto agli attuali 23,4 milioni, e del 10% del tasso di occupazione. Il che implica una riduzione consistente degli attuali bacini di persone disoccupate e inattive e un contributo aggiuntivo di oltre 1,5 milioni di nuovi lavoratori immigrati.
Anche ammesso che questo obiettivo possa essere raggiunto, salvaguardando l’attuale equilibrio del sistema previdenziale a ripartizione, l’invecchiamento della popolazione comporterebbe comunque un aumento della quota delle persone parzialmente o totalmente non autosufficienti e della spesa sanitaria e assistenziale pubblica e privata da dedicare alla loro cura. Il tema non deve essere sottovalutato dato che il nostro Paese risulta essere il secondo a livello mondiale per gli anni di vita attesa, circa 20 anni dopo l’età di media di pensionamento, ma precipita al 27° posto per quelli trascorsi in buona salute (poco più di 10 anni).
Basterebbero questi numeri per consigliare un radicale ripensamento delle nostre politiche di welfare, a partire dall’esigenza di aumentare in modo ragionevole l’età di pensionamento e rendere sostenibile l’anzianità attiva. Soprattutto per cercare di aumentare la quota degli anni da trascorrere in buona salute. Molti Paesi sviluppati stanno investendo in questa direzione, anche con l’introduzione di modelli mutualistici che assicurano il sostegno ai pensionati che diventano non autosufficienti. Per evitare che queste persone passino improvvisamente da una condizione di vita dignitosa a quella di una povertà economica priva delle reti relazionali di sostegno.
Ma se diamo un’occhiata alle priorità delle agende politiche e sindacali viene il dubbio che l’analisi svolta non riguardi il nostro Paese.
In questi giorni sono aperti dei tavoli tecnici di confronto tra il Governo e le organizzazioni sindacali che hanno come oggetto principale l’anticipo con varie modalità dell’età di pensionamento e l’obiettivo di mettere a carico del bilancio pubblico una serie di oneri per finanziare le rendite pensionistiche che non hanno un corrispettivo di versamenti contributivi. Tema che trova riscontro anche in una parte significativa delle promesse elettorali delle forze politiche che fanno parte della coalizione che sostiene l’attuale Esecutivo.
Nella prima fattispecie rientrano: il pensionamento anticipato, a prescindere dall’età, con 41 anni di contributi (costo 4 miliardi di euro l’anno); il prolungamento di Quota 103 e Ape social (1,4 miliardi); il riportare a 58 anni e 35 di contributi l’anticipo dell’età di pensione con l’Opzione Donna (200 milioni); la proroga dei prepensionamenti per le aziende in ristrutturazione con oneri a carico delle imprese. Sul versante dei nuovi interventi strutturali che dovrebbero essere garantiti da risorse pubbliche, anche sul lungo periodo, vengono rivendicate: l’introduzione di una pensione minima di garanzia per i contribuenti assoggettati integralmente al calcolo contributivo della rendita pensionistica, ma che non hanno versamenti contributivi adeguati; un’ulteriore adeguamento delle pensioni minime.
Nel frattempo la stima degli effetti finanziari dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione contenuta nella Legge di bilancio 2023 prevede un aumento della spesa di 65 miliardi per il quadriennio 2023-2026. Tutto ciò nonostante la mancata rivalutazione per le pensioni superiori a 2.500 euro che proseguirà anche nel 2024. Sul versante delle entrate contributive, lo sgravio introdotto per i redditi da lavoro inferiori ai 35 mila euro comporta una riduzione di 10 miliardi di euro anno delle entrate dell’Inps che dovranno essere compensate da trasferimenti dello Stato. In parallelo, proseguono gli sgravi contributivi per le nuove assunzioni che hanno comportato una spesa di oltre 200 miliardi a carico dell’erario nel corso del secondo decennio degli anni Duemila.
Più che un’agenda politica sembra l’applicazione di un manuale sul come portare al collasso la spesa previdenziale e la tenuta del complesso delle altre prestazioni sociali.
Per l’occasione non mancano gli esperti che ripropongono l’arcinota soluzione del problema, quella di separare la spesa assistenziale da quella previdenziale per la finalità di rendere sostenibile quest’ultima. Trascurano il fatto che i trasferimenti dello Stato per mantenere in equilibrio i conti del sistema previdenziale, circa 90 miliardi di euro l’anno, vanno ben oltre il sostegno delle pensioni di invalidità, degli assegni sociali, delle integrazioni dei minimi pensionistici, ma si fanno carico, come ricordato anche dei mancati versamenti contributivi degli incentivi per le nuove assunzioni e dei costi dei pensionamenti anticipati. In ogni caso a pagare il conto sarebbero sempre le trattenute fiscali sui redditi dei lavoratori e dei pensionati. Quelli che i contributi previdenziali li hanno versati per davvero.
Una seconda linea di pensiero si affida all’effetto salvifico legato alla crescita esponenziale del numero dei lavoratori immigrati che potrebbero, o dovrebbero, svolgere le mansioni che non riscontrano le aspettative delle giovani generazioni italiane. Personalmente non nutro dubbi sull’importanza del contributo che possono offrire i nuovi immigrati alla rigenerazione della popolazione attiva nel nostro Paese. Resta il fatto che nelle attuali condizioni la sostituzione delle coorti di anziani italiani che vanno in pensione con gli immigrati sta avvenendo con retribuzioni che sono inferiori di un terzo rispetto a quelle dei nostri connazionali per una serie di ragioni note (basse qualifiche e quote rilevanti di lavoro sommerso). Significativo il dato Istat che evidenzia che un terzo della popolazione residente in condizioni di povertà assoluta è di origine straniera.
Nel concreto, per i sostenitori di queste tesi la soluzione dei problemi dipende dall’incremento dei trasferimenti a carico dello Stato che devono compensare anche il sottoutilizzo delle risorse umane disponibili.
Esistono alternative rispetto a queste politiche che, a dispetto delle polemiche folkloristiche, trovano consenso in tutti gli schieramenti politici?
Certo che sì! La prima è quella di investire sulla crescita e sulla distribuzione della produttività. Il potenziale di innovazioni tecnologiche e di risorse finanziarie che abbiamo a disposizione per migliorare la qualità dei prodotti, dei servizi e delle condizioni di lavoro non ha precedenti. Ma vengono sottoutilizzate o utilizzate nella direzione sbagliata perché la promessa di anticipare l’età pensionabile, anche al costo di dover foraggiare le rendite pensionistiche con le risorse dello Stato, continua a riscontrare consensi nell’opinione pubblica.
È una costante della politica italiana, che ha assecondato la deriva della spesa pensionistica, non di rado con l’accumulo di privilegi e rendite immotivate, e impedito le riforme del nostro welfare. Ma purtroppo la soglia di rottura è stata superata e a rischio non ci sono solo gli importi delle pensioni delle future generazioni, ma anche la tenuta del valore reale di quelle in essere.
Tutto ciò è a conoscenza dei protagonisti del confronto in corso per anticipare l’età pensionabile e per far pagare le pensioni a coloro che non versano i contributi. L’unico problema è diventato quello di lasciare il cerino acceso nelle mani di coloro che avranno il coraggio di dire la verità agli italiani: non c’è più la trippa per far felici i gatti.
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