La settimana inizia con la prosecuzione e l’arricchimento del dibattito sulle pensioni; il che significa che in vista della Legge di bilancio questo tema tornerà all’ordine del giorno nonostante le preoccupazioni più volte espresse dal titolare del Mef Giancarlo Giorgetti. Tra i vari contributi recenti segnaliamo un articolo su Affari & Finanza di Matteo Jessoula ordinario all’Università Statale di Milano e allievo di Maurizio Ferrera; segnaliamo poi un ampio servizio di Claudia Marin sul Quotidiano Nazionale. Il primo contributo si confronta con le opinioni e le proposte più volte sostenuta da Alberto Brambilla, mentre il secondo è una panoramica che riassume alcuni dati e mette in evidenza le misure allo studio nel Governo in rapporto alle sollecitazioni dei partiti e dei sindacati.



Jessoula prende di mira una delle idee “forti” di Brambilla: la spesa assistenziale che secondo il Presidente di Itinerari previdenziali costituisce l’anomalia italiana ed è il principale problema dell’ammontare della spesa. Secondo il professor Jessoula, la componente assistenziale è più ridotta in Italia rispetto agli altri Paesi europei, con una spesa per pensioni di vecchiaia means-tested (assistenziali appunto) che si ferma allo 0,4% del Pil, contro una media Ue dello 0,5% – ben inferiore a Spagna (1,1%), Danimarca (6,1%), Olanda (1,1%) e Portogallo (0,6%).



Per convalidare questa tesi occorrerebbe verificare quali prestazioni vengono classificate assistenziali nei diversi Paesi; nel caso della Danimarca, per esempio, il peso di questa tipologia di spesa sul Pil è tanto elevato perché il fisco svolge un ruolo importante nel finanziamento del sistema pensionistico, ma è concettualmente sbagliato definire assistenza ciò che viene finanziato dallo Stato a prescindere dalle sue finalità di tutela. Più sorprendente un’altra parte del ragionamento di Jessoula: quello che a suo avviso è il falso mito che andiamo in pensione troppo presto.

Come scrive l’autore (a suo modo citando i dati della Commissione europea, Ageing Report), il quadro è radicalmente cambiato rispetto a trent’anni fa, quando l’Italia era il “Paese delle baby pensioni”. L’aspettativa di vita a 65 anni (rilevante per gli equilibri previdenziali) è infatti aumentata di 2,8 anni dal 1994, e di soli 1,1 dal 2004. Dal 1994 l’età pensionabile è però aumentata di 12 anni per le donne e di 7 per gli uomini, e l’irrigidimento di canali di accesso al pensionamento indotto dalle riforme Sacconi e Monti-Fornero ha portato l’Italia ad avere non solo l’età pensionabile più elevata, ma anche l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro tra le più elevate nell’Ue: 64,2 anni nel 2023, contro una media Ue di 63,6 anni (il rapporto era invertito dieci anni prima: 62,3 anni in Italia contro i 63,1 nell’Ue) poco sotto la Svezia (65 anni), in linea con la Germania (64,4) e sopra a Spagna (64), Finlandia (63,7), Austria (63) e Francia (62,4).



L’Italia che si sta portando appresso ancora 500mila baby pensioni per una spesa annua di 9 miliardi è tuttora il Paese dell’anticipo perché le pensioni anticipate di vecchiaia/anzianità sono nello stock circa due milioni in più di quelle di vecchiaia. E il trend è proseguito anche dopo la riforma Fornero in conseguenza delle misure che hanno favorito l’utilizzo di questa forma di pensionamento.

Fonte: Corte dei Conti

Non ha senso poi mettere in relazione la crescita dell’attesa di vita con l’evoluzione normativa dell’età pensionabile. Fino al 1992 le donne, nei settori privati, andavano in pensione di vecchiaia a 55 anni, gli uomini a 60, ma vi era la possibilità di lasciare il lavoro dopo 35 anni a prescindere dall’età anagrafica (un’opzione di cui si avvalevano in larga prevalenza gli uomini per la loro posizione nel mercato del lavoro). Pertanto i 12 anni di incremento per le donne e i 7 per gli uomini corrispondono a una considerazione formale che non esiste nella realtà.

È vero che le sole che hanno pagato il costo più alto delle riforme sono le donne perché hanno sommato insieme gli effetti di due misure che hanno insistito su di un dato di fatto: ci riferiamo, nel caso del trattamento di vecchiaia, alla parificazione per le donne con i requisiti vigenti per gli uomini, giusta a regime con una scansione abbastanza accelerata, nel 2018; all’ulteriore incremento del requisito in ragione dell’adeguamento all’attesa di vita; al fatto che la condizione lavorativa della donna nel settore privato la obbliga ad avvalersi della pensione di vecchiaia, perché mediamente non è in grado di far valere un’anzianità di servizio tale da utilizzare il pensionamento anticipato a prescindere dall’età anagrafica (attualmente 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne) e deve attendere i 67 anni quando per la quiescenza bastano almeno 20 anni.

In Italia  – ha scritto Claudia Marini sul QN – si lavora per più anni in media rispetto al passato, ma restiamo pur sempre agli ultimi posti nell’Unione europea in termini di durata della vita lavorativa (intesa sia come attività sia come ricerca dell’occupazione). E questo divario rinvia nettamente e direttamente a un fenomeno che nel nostro Paese continua a assumere dimensioni e caratteristiche allarmanti: la limitata partecipazione delle donne al mercato del lavoro e, dunque, il gender gap accentuato che si traduce in mille differenze tutte a discapito delle lavoratrici. Sono circa nove gli anni di differenza di durata della vita lavorativa tra uomini e donne: 37,2 per gli uomini, 28,3 per le donne.

Secondo gli ultimi dati di Eurostat, dunque, la durata media della vita lavorativa in Italia è salita nel 2023 a 32,9 anni: il dato ci colloca in fondo alla classifica Ue dove la media è di 36,9 anni, lasciando indietro solo la Romania, ma è evidente che si tratta di una media fasulla tra l’utilizzo di tipologie che comportano requisiti differenti. Scrivere come fa Jessoula che l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro è tra le più elevate nell’Ue – 64,2 anni nel 2023, contro una media Ue di 63,6 anni (il rapporto era invertito dieci anni prima: 62,3 anni in Italia contro i 63,1 nell’Ue) – non dà conto dello squilibrio di genere interno.

Nel 1997 (due anni dopo l’entrata in vigore della riforma Dini), l’età legale richiesta per la pensione di vecchiaia del Fondo pensioni lavoratori dipendenti era di 63 anni per gli uomini e 58 anni per le donne, unitamente a un’anzianità di almeno 18 anni, mentre l’età media effettiva di vecchiaia al pensionamento era di 63,5 anni per gli uomini e di 59,3 anni per le donne. Dal 1.1.2019 e fino al 31.12.2021 l’età legale per la pensione di vecchiaia, ormai unificata dall’1.1.2018 per uomini, donne, dipendenti pubblici o privati e autonomi, è stata di 67 anni di età congiuntamente a un’anzianità contributiva di 20 anni. Nel 2020 per la sola vecchiaia l’età media effettiva alla decorrenza, pari a 67,4 anni per gli uomini, è stata costante rispetto a quella del 2019, mentre per le donne nel 2020 l’età effettiva è salita ancora rispetto ai due anni precedenti: da 66,3 anni nel 2018 è passata a 67 anni nel 2019 per raggiungere i 67,2 anni nel 2020.

In media l’età ponderata per genere della sola vecchiaia è rimasta costante rispetto al 2019 a 67,3 anni (67,4 anni gli uomini e 67,2 le donne), più che in linea con l’età legale di 67 anni. Il 63,6% del complesso delle pensioni nuove liquidate di vecchiaia e anticipate (esclusi i prepensionamenti) erano erogate a uomini mentre solo il 36,4% a donne. Nel 1997 il rapporto tra i generi rispetto al totale delle stesse categorie di pensioni era formato dal 68,5% di nuove pensioni liquidate a uomini e dal 31,5% di uscite femminili. Diverso è il caso del pubblico impiego che vede una prevalenza di pensioni anticipate per le lavoratrici, a prova dell’incidenza della condizione di lavoro sul pensionamento.

Nel 2023 dalla somma delle pensioni anticipate e di vecchiaia (519.879), pari al 34,6% di tutte le nuove pensioni liquidate nel 2023, risulta un’età media effettiva di 64,6 anni, con un importo medio mensile lordo di 1.563 euro. Ma delle 254.821 pensioni anticipate con età media effettiva di 61,7 anni fanno parte quelle liquidate con i 42 anni e 10 mesi di anzianità (un anno in meno per le donne) e qualsiasi età con importi mensili medi di 2.032 euro lordi oppure i 35 anni di anzianità con almeno 58/60 anni di età (riduzione di un anno per ogni figlio, fino a due) di “Opzione donna”.

L’anomalia italiana resta dunque il pensionamento anticipato che consente in prevalenza a lavoratori anziani/giovani di andare in pensione e di restarci per più di vent’anni. Tutto ciò in un contesto demografico all’insegna della senilità.

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