Il Rapporto Inps su dati 2021 ci ha drammaticamente confermato ciò che da tempo affermiamo e cioè la forbice sul mercato del lavoro tra donne e uomini si trascina anche e soprattutto al momento della pensione: alle lavoratrici che soffrono una differenza salariale con picchi del 25% di quelli dei lavoratori toccano dunque assegni insufficienti e se hanno un partner si affidano a loro, se single piombano nella miseria. 



Sessanta a cento. Questo il rapporto tra i redditi pensionistici di donne e uomini in base ai nuovi dati pubblicati nel Rapporto annuale Inps. Dunque, il modello sociale ed economico genera divari che penalizzano le donne e l’andamento nel tempo dell’importo medio lordo annuo del reddito pensionistico di maschi e femmine, in termini nominali e reali a prezzi costanti (in euro del 2021), tenendo conto di tutte le tipologie di prestazioni previdenziali e assistenziali, ci dice che il divario di genere cresce in modo continuativo nel tempo e passa da 3.900 euro nel 2001 a 6.100 euro nel 2021. 



Dall’analisi delle differenze di genere nelle classi di reddito, tenendo sempre conto di tutte le prestazioni previdenziali erogate da Inps, si rileva che le femmine hanno numerosità maggiore rispetto ai maschi nelle classi di reddito pensionistico più basso (fino a 1.500 euro mensili), mentre la situazione si inverte in quelle di reddito più elevato (oltre i 1.500 euro mensili). Nell’ultima classe (oltre i 3.000 euro mensili) i maschi rappresentano il 70% dei percettori. Le differenze si ricollegano anche al fatto che i maschi hanno salari maggiori e prevalgono nettamente nelle pensioni anticipate, ovvero quelle di importo più elevato in media. Le femmine hanno invece una netta prevalenza nelle pensioni ai superstiti (il 32% ne riceve una) e nelle pensioni di vecchiai (il 26% rispetto al 20% dei maschi). 



Sebbene il divario di genere vada valutato in relazione al reddito pensionistico complessivo, la “composizione” del reddito ci restituisce il dato che le femmine ricevono un numero di trattamenti superiore rispetto ai maschi. L’80% dei maschi riceve una sola prestazione rispetto al 64% delle femmine che ne riceve una sola, mentre il 27% ne riceve due e l’8% tre o più. Appunto il divario negli importi medi delle prestazioni è almeno in parte riconducibile a differenze nella tipologia dei trattamenti percepiti e a storie retributive più vantaggiose per i maschi. Poi differenze notevoli tra maschi e femmine si hanno per le pensioni di vecchiaia e quelle di invalidità con un divario di genere intorno al 50%, ma gli uomini percepiscono a grande maggioranza la pensione di anzianità più corposa nell’importo.

Il divario di genere nelle prestazioni pensionistiche più strettamente legate all’attività lavorativa, ovvero le anticipate e quelle di vecchiaia, è legato ad almeno tre fattori: retribuzione oraria, tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno) e anzianità contributiva (che dipende dalla durata e dalla continuità della vita lavorativa). I dati sono da leggere bene perché misurare il differenziale retributivo di genere è cosa complicata, infatti non si capisce bene da dove viene fuori il dato del 6%, un valore contenuto rispetto alla media europea (13%), che, si dice, è il risultato della sostanziale uniformità nel comparto a controllo pubblico a fronte di una forte disparità nel privato che supera il 17% retributivo, mentre Inps denuncia ben il 25% di divario salariale. 

Tra i fattori a cui è riconducibile il divario di genere nella retribuzione oraria vi sono la diffusione dei contratti a tempo determinato con una retribuzione media oraria inferiore di quasi il 30% di quelli a tempo indeterminato, e soprattutto il part-time, con un divario retributivo, rispetto al full-time, di oltre il 30%. Per quanto riguarda le ore retribuite nell’anno, la differenza è di oltre il 15%, con i maschi che lavorano in media 300 ore più delle femmine, in parte, ma non solo, a causa della diversa diffusione di contratti con orario part-time. Il divario in termini anzianità contributiva rimane significativo: nel 2021, le pensionate hanno quasi 350 settimane di contribuzione in meno rispetto ai maschi, e con l’età decresce la diffusione delle pensioni sociali (più diffuse tra le femmine che sono più povere), presumibilmente per la correlazione negativa tra mortalità e status economico. Insomma, da giovani le donne sono discriminate, da anziane peggio.

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