“Nei Paesi poveri niente è più liberatorio per la condizione femminile dei combustibili fossili“. È una delle affermazioni spiazzanti di Michael Shellenberger, consulente ambientale di governi di diversi Paesi e nominato nel 2008 Hero of the Environment dalla rivista Times, alla platea di 1.500 partecipanti provenienti da 72 nazioni intervenuti alla conferenza ARC, Alliance for Responsible Citizenship. La conferenza che ha richiamato a Greenwich relatori di alto livello e numerosi politici internazionali – dall’ex Primo ministro australiano a membri del gabinetto del Regno Unito al neo eletto Speaker repubblicano della Camera Usa – prende di mira le élite all’origine del declino dei valori liberali e si prefigge di invertire il declino autolesionista della società occidentale.
Oltre 2 miliardi di persone per scaldarsi e cucinare cibi ricorrono a biomasse: legna e sterco bruciati su fornelli primitivi all’interno delle case. Senza neppure scomodare i dati sull’inquinamento indoor che provoca annualmente quasi 7 milioni di morti premature, Shellenberger afferma che quando gli capita di intervistare dei cittadini di nazioni a basso reddito, le massaie gli confidano che per loro è un cambiamento epocale il “lusso” di accendere una bombola di GPL e non essere indaffarate a soffiare per tenere acceso il fuoco della stufa o rischiare la propria sicurezza andando a raccogliere fascine. Argomenti che possono sembrare surreali a chi ha guadagnato benessere grazie alla transizione delle fonti di energia avvenuta nel corso degli ultimi 150 anni, procedendo – dal legno all’atomo – verso fonti con una quantità di energia immagazzinata per unità di volume sempre incrementale. Oppure con minore consumo di suolo: per la stessa generazione di kilowattora, gli impianti solari richiedono una superficie 379 volte più estesa di quella necessaria per il nucleare.
Nel confronto economico, il costo dei pannelli fotovoltaici è indubbiamente precipitato, ma quello complessivo della generazione solare deve considerare i costi ancillari: le batterie, il potenziamento delle reti elettriche per la trasmissione e distribuzione, il backup con centrali a turbogas remunerate anche quando spente. Altro paradosso riportato da Shellenberger: tra il 2005 e il 2020 le emissioni climalteranti negli Stati Uniti sono diminuite del 22% e il 60% di questa riduzione è stato ottenuto grazie al passaggio dalla generazione elettrica da carbone alle centrali a gas. Proprio grazie a quel gas diventato così abbondante (gli Usa sono diventati esportatori di gas da importatori quali erano) per effetto della messa in pratica della tecnica di fracking, un procedimento estrattivo demonizzato dai sostenitori della lotta al cambiamento climatico.
L’energia abbondante ha permesso alla media dell’aspettativa di vita di passare da meno 30 anni nel 1800 agli oltre 70 anni di adesso. È sempre grazie all’energia se in circa 60 anni la superficie di terra destinata all’agricoltura e all’allevamento si è più che dimezzata per sfamare una popolazione 2,6 volte maggiore. È ancora merito dell’energia se il 90% della popolazione mondiale è uscita dalla povertà assoluta. Ma soprattutto se osserviamo come si generano gli oltre 13 mila terawattora della bolletta mondo realizziamo che quasi il 60% è coperto da fonti fossili (36% dal carbone prima fonte in assoluto), mentre circa il 16,5% è ottenuto da fonti rinnovabili. La rotta è fissata. Ma quand’anche alla COP 28 che si terrà a fine novembre ad Abu Dhabi si riuscisse a ottenere l’impegno di triplicare la capacità delle rinnovabili entro il 2030 come si legge nei documenti degli incontri preliminari, rimarrà ancora una dominanza dei fossili per decenni.
Il mondo ha ancora bisogno di volumi crescenti di petrolio e gas. Negarlo è irrealistico. Non avverrà neppure perché nel testo del negoziato verrà riportata la vaniloquente promessa di una “graduale eliminazione dei combustibili fossili”. Il mondo dovrebbe concentrare il dibattito su come ridurre le emissioni, non sulla riduzione della produzione di petrolio e gas.
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