La transizione energetica italiana accelera e nel 2023 segna un nuovo passo in avanti grazie alla crescita delle fonti rinnovabili e all’inevitabile ridimensionamento delle fonti fossili, che però continuano a essere predominanti nel nostro Paese, che si inserisce quindi nella scia di altre nazioni che hanno imboccato con maggiore decisione la strada della transizione e dei benefici che comporta a tutti i livelli.
A misurare questo cambiamento è il cosiddetto “mix energetico” relativo alla produzione e al consumo di energia elettrica, ovvero l’insieme di fonti primarie utilizzate in questo ambito: dal gas al carbone, dall’idroelettrico al solare (così come monitorate da Terna).
Va detto innanzitutto che nel 2023 la domanda complessiva di energia elettrica in Italia è calata del 2,8% rispetto al 2022. I motivi sono legati soprattutto all’onda lunga degli effetti della crisi energetica e dell’emergenza bollette che a partire dall’estate 2022 hanno causato una riduzione della domanda: un fenomeno che si è protratto anche lo scorso anno, arrivando addirittura ad aggravarsi nel primo semestre. Sulla minor richiesta di energia elettrica incide anche l’effetto dell’avanzare di interventi di efficientamento energetico, in particolare nel mondo dell’industria. Del resto il calo della domanda di energia elettrica è un fenomeno che prosegue anche nei primi due mesi dell’anno in tutta Europa (-7,7% a febbraio in Francia), anche a causa delle temperature più elevate rispetto alla media stagionale.
Tornando al mix italiano, le rinnovabili come dicevamo, hanno fatto un balzo in avanti rispetto alle fonti fossili. E non si tratta certo di fenomeno locale: le rinnovabili, e il fotovoltaico in particolare, avanzano a livello globale. In Europa nel 2023, per la prima volta, le rinnovabili elettriche hanno superato la quota del 40%; e per la prima volta la fonte eolica ha prodotto più energia elettrica del gas.
Tornando all’Italia, se consideriamo l’incidenza sulla richiesta totale di energia elettrica, le fonti pulite sono cresciute passando dal 31% al 37%, mentre le fonti non rinnovabili sono scese dal 55,4% al 46,5%. La fetta mancante è quella relativa alle importazioni dall’estero.
Per le fonti fossili si tratta di un arretramento significativo, certamente il più importante degli ultimi 20 anni. La produzione da carbone segna un calo del 41%. E questa è un’ottima notizia: la fonte più inquinante torna a occupare una piccola fetta del nostro mix energetico dopo l’exploit del 2022. Anche il gas arretra, ma rimane la voce più importante del mix italiano.
A generare questo ridimensionamento delle fonti fossili è stata soprattutto l’avanzata di idroelettrico, eolico e fotovoltaico. L’idroelettrico ha recuperato posizioni dopo la crisi del 2022 (che era stata causata da siccità ed emergenza idrica) tornando a coprire il 15% della produzione italiana di energia elettrica.
Chi anno dopo anno avanza inesorabilmente è il fotovoltaico, che ha guadagnato due punti percentuali arrivando a coprire il 12% della produzione italiana di energia elettrica: una fetta che avrebbe potuto essere maggiore se molti progetti di impianti fotovoltaici utility scale non fossero stati bloccati da cavilli burocratici e da un complesso sistema di permitting.
La crescita delle installazioni fotovoltaiche è stata sostenuta da diversi fattori: una spinta importante è arrivata certamente dal Superbonus per quanto riguarda gli impianti residenziali. Ma, come prevedibile, lo stop ai tanto discussi benefici del 110% non ha interrotto, ma solo rallentato la diffusione della fonte solare sui tetti delle case italiane. Lo scorso anno però la spinta più importante alla diffusione del fotovoltaico è arrivato dal cosiddetto segmento “Industrial & Commercial”, cioè dagli impianti fotovoltaici al servizio del mondo delle imprese, soprattutto stabilimenti produttivi e strutture commerciali. E a guidare questo cambiamento sono state in particolare le Pmi. A favorirlo hanno contribuito principalmente tre fattori: l’esigenza di ridurre la spesa energetica (e il kWh da fotovoltaico è senza dubbio quello più economico), la necessità di coprirsi le spalle da possibili rincari dei costi dell’energia elettrica grazie un’elevata percentuale di energia autoprodotta, e il fattore green energy; quest’ultimo inteso non solo come una buona pratica per la salvaguardia dell’ambiente, ma anche come un plus in prospettiva dell’impatto che avranno i criteri ESG (Environmental, Social, e Governance) sul mondo del lavoro.
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