È di ieri un interessante studio dell’Ocse che indaga su come un’emergenza sanitaria come quella del coronavirus si sia trasformata in una grave crisi economica. La pandemia di Covid-19 ha, infatti, innescato la più profonda crisi economica dai tempi della Grande Depressione del 1929. Rispetto al primo trimestre del 2019, il Pil dei paesi Ocse è diminuito, secondo le stime più recenti, di quasi il 15% nella prima metà del 2020, mentre il tasso di disoccupazione è passato dal 5,2% di febbraio all’8,4% di maggio.
L’Italia è stato, in questo quadro, uno dei Paesi “sviluppati” più colpiti dalle ricadute economiche del Covid-19: si registrano, difatti, meno occupati e meno ore tra chi è rimasto, fortunatamente, al lavoro. Si parla, per avere un’idea di quanto sta accadendo, di un calo del totale delle ore lavorate del 28% nei primi tre mesi della crisi.
Si pensi che, nonostante la misure prese dal Governo Conte per aiutare le imprese, i lavoratori e le loro famiglie, le richieste di Naspi sono aumentate ben del 40% tra marzo e maggio, rispetto allo stesso periodo del 2019. L’aumento del numero di persone non occupate è stato determinato principalmente dal mancato rinnovo di molti contratti a tempo determinato e dal congelamento delle nuove assunzioni (il numero delle offerte online di lavoro è crollato del 30% tra febbraio e maggio in Italia).
La crisi ha colpito in modo particolare gli autonomi, i temporanei, i lavoratori con bassi salari, i giovani e le donne. La crisi da Covid-19 rischia, quindi, di aggravare ulteriormente le disuguaglianze già esistenti sul mercato del lavoro
In questo quadro complessivo le previsioni Ocse avanzano due scenari basati sul ritorno di una seconda ondata pandemica a fine 2020 o meno. Se la pandemia sarà tenuta sotto controllo, l’occupazione in tutta l’area dei Paesi sviluppati dovrebbe diminuire del 4,1% nel 2020 e crescere solo dell’1,6% nel 2021. In l’Italia la disoccupazione, che a febbraio 2020 era ancora ben al di sopra del livello pre-crisi 2008, dovrebbe raggiungere il 12,4% a fine 2020, cancellando ben quattro anni di lenti miglioramenti.
Se la pandemia sarà, com’è da auspicarsi, tenuta sotto controllo, la disoccupazione dovrebbe, poi, scendere gradualmente all’11% entro la fine del 2021, rimanendo comunque ben al di sopra del livello della crisi finanziaria di dieci anni fa.
Partendo da questa, impietosa, analisi vengono avanzati anche dei consigli. L’Italia dovrebbe, secondo l’Ocse, agire rapidamente per aiutare i propri giovani a mantenere un legame con il mercato del lavoro, per esempio riprendendo e rinnovando significativamente il programma Garanzia giovani. I servizi pubblici, e privati, per l’impiego dovrebbero prepararsi a un aumento della domanda dei loro servizi, dotandosi degli strumenti necessari, a partire da un maggiore e migliore uso dei servizi digitali.
Si immaginano poi programmi di formazione mirata, online (?) e offline, che potrebbero aiutare le persone in cerca di lavoro, e i lavoratori in cassa integrazione, a trovarne uno nei settori e nelle occupazioni relativamente più richiesti e a contrastare il rischio di disoccupazione di lungo periodo. Il tutto sostenuto da generosi incentivi all’assunzione, concentrati sui gruppi più vulnerabili, che potrebbero contribuire a promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro specialmente per chi è a rischio di rimanere fuori mercato.
Viene da chiedersi se, però, abbiamo gli strumenti, le infrastrutture e le persone adatte a veicolare le opportunità a chi è ancora disponibile a investire, a rischiare e a innovare nel nostro Paese. La crisi, infatti, oltre che i lavoratori, sta colpendo duramente anche le imprese più deboli e vulnerabili solitamente di piccole dimensioni e “poco dinamiche”.
Sembra, insomma, che il Covid abbia messo in luce, tutte assieme, molte delle criticità del nostro sistema economico e produttivo. È forse il tempo di immaginarne, tutti assieme per ruolo, competenza e responsabilità, uno nuovo che guardi all’Italia del 2050?