Nel commentare le rilevazioni mensili dell’Istat sull’andamento dell’occupazione, si corre sempre il rischio di trarre delle conclusioni fuorvianti. La tentazione di valutare l’effetto delle politiche dell’ultimo Governo in carica è sempre dominante, soprattutto se relazionati ai provvedimenti normativi sui rapporti di lavoro, che, in genere, producono effetti marginali rispetto ai trend consolidati.
Nello specifico della rilevazione mensile di giugno, non deve preoccupare tanto il leggero aumento dei disoccupati, +28mila unità, dovuto integralmente alla riduzione del numero degli inattivi, e non a un calo degli occupati. Semmai deve preoccupare il progressivo riallineamento, che è in corso, tra la stagnazione del ciclo economico, con una crescita che tende allo zero, e quello degli occupati. I recenti segnali di ripresa del numero degli occupati, comunque legati soprattutto all’incremento dei rapporti di lavoro con orari ridotti, sembrano essere rientrati. La crescita annuale si mantiene intorno alle 190mila unità, con la probabile prospettiva di una diminuzione nelle prossime rilevazioni congiunturali.
Nelle rilevazioni mensili non sono disponibili i dati sugli andamenti settoriali e territoriali, che sono importantissimi per valutare la qualità degli andamenti occupazionali. La prospettiva di una contrazione della produzione nel manifatturiero, legata alla riduzione della domanda di automobili e delle forniture all’industria tedesca palesemente in difficoltà, rischia di impattare pesantemente sugli occupati a tempo indeterminato e con buone retribuzioni. La costante diminuzione degli investimenti in infrastrutture erode le possibilità di una ripresa dell’occupazione nel Mezzogiorno.
Come ho già avuto modo di evidenziare in altri commenti, nel nostro sistema produttivo e soprattutto nei comparti dei servizi sono carenti i settori che possono svolgere un ruolo anti-ciclico per la crescita dell’occupazione. Il tasso di occupazione italiano rimane costantemente al di sotto di 10 punti percentuali rispetto alla media dei paesi aderenti all’Ue (per un’equivalenza di circa 3,8 milioni di posti di lavoro).
Una distanza concentrata essenzialmente nei comparti dei servizi, in particolare nei settori della sanità e dell’assistenza sociale, dell’istruzione e dei servizi per le imprese. L’alta percentuale dei contratti di durata limitata, e con basse qualificazioni e retribuzioni, nel nostro mercato del lavoro dipende essenzialmente dall’arretratezza tecnologica e organizzativa di molti comparti dei servizi. In buona sostanza il nostro mercato del lavoro langue per l’incapacità di adeguare la nostra spesa pubblica e il nostro modello produttivo all’invecchiamento della popolazione e ai fabbisogni di nuova natalità.
Quanto è evidente tutto ciò nella gestazione delle proposte del probabile nuovo Governo giallo-rosso? Poco o nulla. Non solo perché, per l’ennesima volta, i buoni propositi dovranno fare i conti con la realtà, leggi la difficoltà di conciliare i tagli di spesa, soprattutto quella previdenziale e assistenziale che sta debordando, con il rilancio degli investimenti, siano essi evergreen o infrastrutture. Con tutta probabilità assisteremo all’ennesima richiesta di allungare il brodo, leggi la possibilità di fare più debiti, verso le autorità dell’Ue.
La volontà di ridurre il cuneo fiscale tra costi del lavoro e retribuzioni, è certamente più realistico della flat tax, ma difficilmente potrà essere assimilabile a uno shock significativo sulla domanda interna.
Ma le politiche del lavoro che vengono annunciate, il salario minimo legale in primis, l’improbabile tentativo di correggere le pensioni quota 100 e il reddito di cittadinanza, si scontreranno con la possibilità di far rientrare i buoi fuoriusciti dalla stalla. Più concretamente: di ridimensionare la spesa erogata a oltre 2,4 milioni di cittadini sulla base di requisiti autocertificati per accedere al reddito di cittadinanza, ovvero annunciare modifiche all’età pensionabile provocando una valanga di domande di pensione delle persone, circa 150mila, in possesso dei requisiti vigenti, ma che avevano provvisoriamente rinunciato a inoltrare la domanda.
In generale continua a prevalere nel M5s e nel Pd l’illusione che i problemi strutturali debbano essere affrontati con un’iniezione dirigistica di nuove leggi, nella logica dei diritti e della redistribuzione di un reddito peraltro inesistente. Siamo ancora in una fase di gestazione delle proposte e sarebbe ingiusto trarre delle conclusioni affrettate.