Meglio per le famiglie. Peggio per le società. Bene, ma, non proprio così bene per lo Stato italiano. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni che si possono trarre dal periodico e consueto documento Conto trimestrale delle AP reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società (I trimestre 2024) diffuso ieri da Istat.



Andando con ordine, le risultanze formali che emergono dal rapporto vedono il nostro Paese alle prese con un viaggio itinerante nel tempo distinto da due contrapposte direzioni che, oggettivamente, equivarrebbe a un vero e proprio stato di stallo. Nonostante questa opposizione di forze potrebbe essere giudicata positiva in alcuni momenti della vita di una qualsiasi nazione e della sua economia, nel nostro caso, invece, quello dell’Italia, le caratteristiche di questa (eventuale) positività vengono meno se, guardando ai conti pubblici, emergono, per lo più, distonie tra le singole e abituali voci di bilancio. Ma, a quest’ultimo aspetto, ci arriveremo a breve. Ora, invece, approfondiamo il primo lato “meglio” della medaglia.



Come indicato, per le famiglie italiane, oggi, è un buon momento: «In termini nominali, il reddito disponibile delle famiglie è aumentato del 3,5% rispetto al trimestre precedente, mentre la spesa per consumi finali è cresciuta dello 0,5%». Dal riscontro di questo unico elemento emerge l’ovvia (e non scontata) conseguenza, infatti, proseguendo nella consultazione del rapporto Istat si può apprendere senza alcun dubbio che: «La propensione al risparmio delle famiglie è aumentata di 2,6 punti percentuali rispetto al trimestre precedente, attestandosi al 9,5%» (il minimo storico era stato toccato nell’ultimo trimestre del 2022). Sempre continuando nel dossier famiglie, inoltre, si evince una sorta di rivincita nei confronti della temuta inflazione: «Il potere d’acquisto delle famiglie è cresciuto rispetto al trimestre precedente del 3,3%, lievemente frenato dall’aumento dei prezzi al consumo (+0,2% la variazione congiunturale del deflatore implicito dei consumi delle famiglie)».



Archiviato il delicato e molto importante bilancio in capo alle famiglie italiane, adesso, siamo obbligati a riportare il secondo lato “peggio” della sopracitata medaglia: quello delle imprese. Quest’ultime, nel consueto Commento a margine dell’intero documento di Istat, possono leggere la sintesi che, purtroppo, le coinvolge: «Le società non-finanziarie sperimentano una dinamica opposta (rispetto a quella delle famiglie ndr), con la quinta flessione consecutiva della quota di profitto, dopo il picco osservato nell’ultimo trimestre del 2022». Nello specifico, i dati delle cosiddette società non finanziarie, sono: quota di profitto stimata al 42,7% in diminuzione dell’1,6% rispetto al trimestre precedente e tasso di investimento al 20,5% ovvero in aumento dello 0,4% se raffrontato all’ultima parte del 2023 (rif. trimestre).

In veste di osservatori questo ipotetico match tra famiglie e imprese non ci sorprende nei suoi stessi numeri e relative conclusioni, infatti, solo una manciata di giorni fa, avevamo sottolineato la vittoria delle prime nei confronti delle seconde con questo titolo: «Le difficoltà per le imprese superiori a quelle delle famiglie». Come ovvio non c’era nessun clamore sul buon esito dell’incontro, infatti, il rischio, era quello di poter assistere a un inequivocabile verdetto finale: «I presupposti per crescere e far crescere l’Italia ci sono, ma le sole famiglie non possono farsene carico» e, ancora, «difficile ipotizzare una crescita del Paese senza l’apporto imprenditoriale».

Allo stallo citato inizialmente che, in base a questi dati, conferma un equilibrio (molto precario) tra il meglio-peggio italiano, ora, l’ardua sentenza grava sul sempre esposto Stato italiano e i suoi relativi conti: «Nel primo trimestre del 2024 il quadro di finanza pubblica mostra un indebitamento in miglioramento e una pressione fiscale in crescita rispetto al corrispondente trimestre dell’anno precedente». Bene (per le casse dello Stato).

Focalizzando l’attenzione alle sole Amministrazioni pubbliche, la prima parte dell’anno in corso, vede un bilancio favorevole. Versante “uscite”: «le uscite totali delle AP sono diminuite del 2,0% rispetto al corrispondente periodo del 2023 e la loro incidenza sul Pil (pari al 49,9%) è diminuita in termini tendenziali di 2,7 punti percentuali» con «Le uscite correnti hanno registrato un incremento tendenziale del 2,4% mentre le uscite in conto capitale sono diminuite in termini tendenziali del 29,6%». Decisamente bene.

Passiamo, adesso, alle contrapposte “entrate”: «Le entrate totali nel primo trimestre 2024 sono aumentate in termini tendenziali del 3,5% e la loro incidenza sul Pil è stata del 41,1%, in leggero calo (0,1 punti percentuali) rispetto al corrispondente periodo del 2023» con «Le entrate correnti nel primo trimestre 2024 hanno segnato, in termini tendenziali, un aumento del 5,3%. Si registra, invece, una riduzione delle entrate in conto capitale del 78,1%». Se le “uscite” erano viste decisamente bene, le “entrate” possono ampiamente soddisfare un giudizio di molto, molto bene. Innegabile.

Un commento positivo a questo ritrovato bene-essere sarebbe doveroso, ma, almeno chi scrive, non lo ritiene opportuno. Non si tratta di una remora personale, ma, viceversa, di una “semplice” indisposizione riconducibile ai “numeri”, quelli che solo importano, presenti nel prospetto relativo alle singole voci di «uscite, entrate, saldi». Soffermando l’attenzione alle differenze tra il primo trimestre 2024 e quello del 2023, il dato associato alla quota degli interessi passivi registra un incremento del 18,5% che, in ottica futura, tenderà a un ulteriore rialzo a causa dell’ancora elevato livello dei tassi di interesse. Proseguendo tra le successive voci appartenenti alle “uscite”, quella concernente le “Altre uscite in c/capitale” concretizza un significativo ridimensionamento rispetto a un anno fa: 8.510 milioni di euro (-60,1%) versus gli oltre 21 miliardi (21.348 milioni) del 2023. Oggettivamente ci troviamo di fronte a un differenziale importante non solo se raffrontato anno su anno, ma, inoltre, se comparato alla serie storica post-pandemia.

Consultando la specifica tavola (rif. 4.1a) comprendente i saldi trimestrali e isolando le singole medie di ciascuno di essi (periodo 2010-2023) si può assistere a una progressione che, partendo dagli oltre 4 miliardi di euro del lontano 2010 si è successivamente arrivati a superare gli 11 miliardi del 2020 per, poi, proseguire a un ammontare superiore ai 23 (2021), 27 (2022) e 30 miliardi dello scorso anno 2023. Tutti valori medi riconducibili a un solo trimestre. Considerate queste dinamiche sostanziose (molto) e solo rialziste appare evidente come quei “soli” 8,5 miliardi presenti nel nostro conto economico domestico appaiono alquanto residuali e, purtroppo, suscettibili di una vera e propria “revisione” (ovviamente con il segno più) nelle prossime rilevazioni.

Auspicando che tale aggiustamento non destabilizzi troppo le nostre finanze, per il momento, ci accontentiamo di questo attuale e, forse, fin troppo momentaneo bene-italiano. Un bene sì, ma, con molte, molte e ancora molte riserve.

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