La festa del lavoro è stata teatro dei consueti altisonanti proclami: dal capo dello Stato (“La festa del Primo Maggio è una festa della Repubblica e della Costituzione, la quale indica nel lavoro un fondamento di civiltà, condizione di autentica libertà personale, di autonomia delle persone nella costruzione del proprio destino […]. Senza lavoro rimane incompiuto il diritto stesso di cittadinanza, la dignità dell’individuo ne rimane mortificata, la solidarietà sociale e la stessa possibilità di sviluppo della società ne rimangono compromesse”), ai sindacati (“La sicurezza non è fare le leggi per armarci e difenderci, ma è quella di non morire sul lavoro”), al Vicepremier ministro del Lavoro (“Spero sia l’ultimo primo maggio in cui in Italia non c’è il salario minimo orario, perché chi lavora deve avere una paga oraria che gli consenta di arrivare a fine mese. Sennò non è lavoro, è essere sfruttati”); tutte cose sacrosante, per carità! Personalmente, tuttavia, mi lasciano l’impressione di una ripetitività astratta e noiosa.



Dal rapporto sul mercato del lavoro 2018, elaborato da Istat, ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal, sull’ultimo decennio emerge, da un lato, una tenuta complessiva del mercato del lavoro negli anni della crisi, dall’altro una sostanziale immobilità, che rivela fondamentalmente i problemi del Paese, mai seriamente affrontati.



Il decennio monitorato ha visto una prevalente affermazione del lavoro dipendente, con una crescita dei rapporti a tempo determinato e a tempo parziale, non di rado forzati da ristrutturazioni aziendali di vario genere. Infatti, nel complesso, la crescita occupazionale è stata caratterizzata da una bassa intensità lavorativa, avendo recuperato il numero dei lavoratori occupati i livelli del 2008, ma con una quantità inferiore di ore lavorate (1,8 milioni di ore in meno). Soprattutto è grande la distanza che separa l’Italia dalla Ue-15, che ha in media un tasso di occupazione del 67,9% (2017) a fronte del 58% di quello italiano, corrispondente a circa 3,8 milioni di occupati aggiuntivi. Nel 2017, il tasso di disoccupazione (11,7%, circa 3 milioni di lavoratori) posiziona l’Italia al terz’ultimo posto in Europa, dove il tasso medio è del 7,6%.



L’occupazione giovanile, nella fascia di età 15-29 anni, pur registrando un incremento dei primi ingressi nel 2017 rispetto agli anni precedenti, presenta essenzialmente due anomalie: precarietà dei rapporti di lavoro instaurati (il 50% è assunto con contratto a tempo determinato, il 14% con contratto di apprendistato e il 12% con contratto di lavoro intermittente; soltanto il 9% con contratto a tempo indeterminato) e bassa qualifica delle attività svolte, spesso sottopagate, prevalentemente nei settori alloggio e ristorazione, trasporto e altri servizi di mercato con mansioni di camerieri e assimilati (12%), commessi vendite (8,5%), braccianti agricoli (7,4%) e lavori esecutivi di ufficio (2,8%).

Analizzando il sottoutilizzo della forza lavoro, si vede che gli occupati sovra istruiti sono il 24,2% del totale (oltre 5,5 milioni), in continua crescita negli ultimi anni, sia a causa di una domanda di lavoro non adeguata al generale innalzamento del livello di istruzione, sia a causa della mancata corrispondenza tra competenze specialistiche richieste e possedute. L’incidenza del sottoutilizzo è maggiore tra i dipendenti a termine, a tempo parziale e nei settori sopra citati: “I giovani per anni sono stati in una situazione di estrema penalizzazione, con le politiche previdenziali e pensionistiche che hanno determinato un blocco. Adesso c’è stato un recupero dei primi ingressi, anche se, rispetto ad un’offerta qualificata, spesso i giovani accettano lavori sottopagati e lontani dal loro percorso formativo e di studi”, così commenta il Direttore del Dipartimento di Statistica dell’Istat.

Sul fronte delle grandi imprese, l’analisi dell’occupazione giovanile induce anche a evidenziare la presenza di una forte e pericolosa dicotomia: da una parte, lavoratori più anziani, che godono di generose retribuzioni, normalmente non coerenti con l’attività svolta, di privilegi contrattuali consolidati (non solo retributivi) e di pretese prontamente enfatizzate e cavalcate dalle sigle sindacali in cerca di sostenitori tra le file ormai prossime alla pensione; dall’altra, lavoratori più giovani, non adeguatamente retribuiti rispetto alle mansioni loro richieste, quand’anche impiegati in settori ancora privilegiati, soggetti a pressioni e sollecitazioni dovute a maggiori livelli di istruzione e flessibilità.

Al di là delle manifestazioni di piazza e dei luoghi comuni che in tali occasioni si sfoderano, a mio parere, sarebbe necessario programmare un’agenda seria, che affronti problemi integrati tra loro: dall’emergenza demografica, alla necessità di creare poli attrattivi di professionalità altamente qualificate, all’urgenza di incentivare la creazione di nuove forme di rappresentanza per tutelare davvero tutti i lavoratori e non soltanto caste privilegiate che si sono affermate a partire dai tavoli sindacali e politici degli anni ‘80, o perché fedeli a certi presupposti ideologici. Naturalmente, tutto questo presuppone che, prima o poi, si esca dalla propaganda elettorale e si cominci a lavorare.

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