È noto che serve crescita economica perché possano aumentare i posti di lavoro. L’Italia sta invece uscendo da un lungo periodo di crisi con una crescita lenta (fra 0,5 e 1% di Pil annuo) e con una produttività che resta ferma al livello di avvio della fase di crisi economica internazionale. In queste condizioni è evidente che se vi è comunque una crescita degli occupati ciò è dovuto a un lavoro di bassa qualità (servizi a forte presenza di manodopera) e con un aumento del part-time involontario. È forse per queste ragioni che la presenza di un forte mismatching fra offerta e domanda di lavoro assume grande rilevanza nel dibattito sul mercato del lavoro.



Da più parti si richiamano ricerche e analisi che valutano in quasi un milione i posti di lavoro disponibili ma che non vengono coperti a causa di difficoltà a reperire lavoratori con le competenze necessarie. Ora, che ciò avvenga in un Paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è di circa il 30% suona come un vero e proprio scandalo.



I sempre più affinati risultati dell’indagine Excelsior, svolte da Unioncamere e Anpal, danno però un quadro che è in via di peggioramento. Fra il 2017 e il 2018 è aumentato di quasi 5 punti il numero di imprese che dichiarano di trovare difficoltà nel trovare le figure professionali richieste. Il tasso complessivo riguarda ben il 26,3% delle aziende che hanno intenzione di assumere nuovi lavoratori.

Anche se il calcolo è improprio, dato che ogni anno si stimano 4 milioni e mezzo di assunzioni, il dato ci indica circa 1,2 milioni di posti che restano scoperti. Di queste domande che trovano difficoltà si conoscono i contenuti professionali oltre alla quantità. Sono quasi tutte professioni ad alto contenuto tecnico, scientifico e matematico. Sia nella fascia alta (dirigenti e professionisti in attività tecnico e scientifiche) che in quelle specialistiche di operai e quadri addetti a impianti, macchinari e servizi avanzati nel commercio.



Ovviamente pesano fortemente gli equilibri territoriali. Al Nord (mediamente) abbiamo 75 posti di vacancies per ogni 100 disoccupati. Al Sud abbiamo meno di 2 vacancies per 100 disoccupati. Non rinviare politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno partendo da grandi investimenti pubblici appare indispensabile, ma nell’insieme sembra anche necessario individuare una risposta allo spreco di risorse lavorative che mettono in luce i dati appena mostrati.

Un’analisi approfondita del fenomeno è stata svolta dall’Agenzia del lavoro della Regione Veneto e mette in luce una pluralità di ragioni che determinano il fenomeno, fornendo una bussola per affrontare il tema con politiche mirate. Limiti ed errori appartengono ai comportamenti sia della domanda che dell’offerta di lavoro. La scarsa propensione alla mobilità geografica fa sì che parte della domanda di lavoro non trovi persone disponibili a muoversi dall’attuale residenza. E salari bassi favoriscono risposte negative se vi sono costi da affrontare. Ma restano alcuni temi strutturali che chiedono interventi di sistema.

Nel medio periodo va fatto crescere il sistema duale e dell’apprendistato, non come forma contrattuale generica, ma come percorso formativo scuola-lavoro promosso da imprese e operatori della formazione professionale per favorire un percorso di formazione di base ma anche di livello tecnico professionale (dall’istruzione e formazione lavoro agli Its), come vero canale parallelo al percorso scolastico tradizionale. Ciò darebbe più sostanza al potenziamento dei servizi di orientamento che oggi sono la cenerentola dei servizi per il sostegno del rapporto scuola-lavoro offerto ai giovani.

Nel breve periodo vi è bisogno di un salto di qualità nei servizi di politica attiva perché favoriscano, anche attraverso percorsi formativi mirati, l’incontro fra esigenze delle imprese e competenze dei disoccupati, favorendo il superamento del mismatching esistente. Soluzioni di breve e di medio periodo richiedono perciò un sistema di servizi di politica attiva e soprattutto di formazione professionale molto diversi dall’esistente. La formazione deve essere misurata e finanziata sulla base di risultati di efficacia misurati e resi pubblici. I corsi esistono per dare occupabilità alle persone e non per dare lavoro ai formatori. È su questa base che va organizzato il sistema in tutte le regioni e semplificato nella governance per favorire la nascita di nuove eccellenze formative. I servizi al lavoro devono passare da essere macchine burocratiche amministrative a centri di promozione dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro.

Vi è poi un impegno culturale da affrontare. Non possiamo dare ai giovani la colpa della situazione creata da chi butta via risorse per inutili navigator o spende per dare quota 100 agli anziani. Si diano contatti che tutelano il lavoro in tutti i suoi aspetti, si tolgano i finti stages e tirocini, si favorisca la scuola che funziona e non i corsifici (compresi molti corsi universitari) inutili e si introducano regole che premiano i meriti.Rompere il sistema che premia la rendita rispetto alla valorizzazione dei talenti è indispensabile per rimettere in moto la mobilità sociale e valorizzare il lavoro di tutti.